Dialoghi sui massimi sistemi delle Arti Marziali
(1)
Yōseikan e altre.
Prima Conversazione: Sistemi Marziali ed Introduzione di Tecniche estranee
Personaggi
Donn: Donn F. Draeger
Kanō sensei: Jigorō Kanō sensei, creatore del Kōdōkan Jūdō
Giacomo: Famosi “Giacomo” storici e leggendari
DONN: Ehilà Adriano, come va? Ti vedo pensoso…
IO: Ciao Donn, rifletto su una discussione che ho avuto di recente, sui miei studi e su tutto quello che vi è collegato.
DONN: Beh, è una attività piuttosto impegnativa, di quelle che ti piacciono molto. Come a me. Oh, ecco Jigorō sama!
KANŌ SENSEI: Ohayō Gozaimasu Donn san e Adriano san!
DONN e IO: Ohayō Gozaimasu Kanō sensei!
IO: Che piacere rivederti! Parlavo con Donn di una discussione che ho avuto giorni fa, un discorso che verteva su diversi punti. Man mano che vado avanti nei miei studi mi accorgo di quanto c’è da sapere e considero con frustrazione e amarezza come di questi tempi le cose stanno decadendo.
Siamo arrivati a una esasperazione di quello che tu, Donn, scrivevi nei tuoi libri, la trilogia su Bujutsu e Budō antico e moderno, parlavi di come il Budō fosse una parte del Bujutsu e di come il Budō del secondo dopoguerra, in molti gruppi, si fosse lasciato andare rispetto a quello del tempo precedente. Adesso, in questa discussione, vorrei parlare di come ci sia una contaminazione nelle Arti Marziali con l’immissione di tecniche d’allenamento prese da sport contemporanei e, nel settore applicativo, la sostituzione dei modi e delle tecniche di combattimento proprie della singola disciplina con modalità generalizzate prese dal Contact e da competizioni miste.
DONN: Già, vedo che la confusione è parecchio aumentata…
DONN: Jigorō sama tu che ne pensi?
KANŌ SENSEI: Devo intervenire però con una domanda proprio a te, Donn san. Sei stato tu tra i primi a introdurre allenamento con i pesi tra gli agonisti del Jūdō. Cosa puoi dire? Come valuti quello che hai fatto?
DONN: La mia idea era di dare un lavoro più specifico al potenziamento, ma era, come lo concepivo, un sistema ausiliario che doveva inserirsi nella tecnica, nel Waza, come una parte per migliorare la resa nelle catene cinematiche senza perdere di vista assolutamente i principi della disciplina. Doveva inserirsi nella catena Kuzushi/Tsukuri/Kake, non sostutuirla. Doveva essere una goccia in un bicchiere. Ma forse ho aperto il proverbiale vaso di Pandora. Altri hanno reso il lavoro con i pesi sostitutivo, hanno ristretto la capacità tecnica dell’atleta puntando sulla forza e tradendo così la base costituzionale della disciplina.
IO: La mia riflessione, come dicevo prima, viene fuori da una situazione che ho scorto prima nella mia scuola cardine, lo Yōseikan Budō, e poi ho ritrovato in altre, quasi tutte, Arti Marziali. La maggior parte dei miei colleghi non studia, né pratica veramente la materia. Come succede oggi in molti campi e vediamo nei cosiddetti “social”, la gente si ferma ai titoli. Ignora la struttura delle cose, in questo caso le Arti Marziali ricorrendo piuttosto in modo massiccio ai sistemi surrogati, l’allenamento occidentale di tipo sportivo-agonistico e alla tecnica degli sport da combattimento para marziali moderni come Kick Boxing, Boxe, MMA e Brasilian Jiu Jiutsu.
Peraltro, lo vedete, la maggior parte degli istruttori lo fa in modo molto superficiale e barbino. Ma questo è quell’altro, solito tema: l’allargarsi della base quantitativa porta (inevitabilmente?) alla discesa qualitativa della pratica e dell’insegnamento.
KANŌ SENSEI: Lo sport che aveva proposto il caro barone De Coubertin basandosi sull’ideale olimpico greco, era quello che io avevo colto e proposto entusiasticamente nel sistema educativo giapponese, ma è una cosa molto diversa rispetto a quanto vedo oggi. Il movimento olimpico moderno e tutto lo scenario mondiale sono stati modificati con imperizia ed ipocrisia, per volontà di potenza e sete di denaro. Lo sport doveva essere soprattutto azione e partecipazione, senza ansia del risultato ma soprattutto confronto con se stessi. Lo sport olimpico doveva essere condividere, fare secondo le proprie possibilità cercando di migliorarsi. Le Olimpiadi del ’36, le ricordo bene, mi sembrarono una svolta in senso negativo verso l’andazzo di sfoggio politico e volontà di potenza. Quelle del ’40, che dovevano essere a Tōkyō, avrei voluto fossero un ritorno alle linee corrette e un altro passo verso la filosofia degli eventi classici dei greci, l’obiettivo originario che ancora non era stato raggiunto.
Né allora, né oggi.
Questo era uno dei motivi per cui non volevo che il mio Jūdō vi partecipasse.
DONN: E gli altri motivi? Anche se credo di sapere la risposta… Ai Campi ne abbiamo parlato più volte.
IO: Già, sensei, cosa ci dice?
KANŌ SENSEI: Il Jūdō vuole essere educazione e modello di crescita personale. Tre sono le sue fasi-componenti: a) la capacità di combattere; b) l’educazione fisica, che è il miglioramento del corpo in tutte le sue caratteristiche per una vita in salute ed efficienza a tutte le età; c) lo sviluppo dell’etica e della moralità dell’individuo, la sua capacità di “essere” nell’ambiente e nella società, di “fare” insieme per lo sviluppo, il progresso, che è tale solo se ci sono tutte queste componenti. Per me giapponese sono concetti del confucianesimo, ma anche i filosofi occidentali come Spencer ne parlano.
Per cui il sistema dello sport olimpico decoubertiniano copriva solo il punto (b) e parte del (c) dove parlo di “insieme”. Ma era una cosa limitata agli eventi, mentre il Jūdō cammina dappertutto, applica i suoi principi ad ogni cosa.
IO: Parliamo della capacità, facoltà di adattamento ai luoghi e alle situazioni?
KANŌ SENSEI: Questo è un altro punto, che andava ad ampliare i tre originali. Mi ero reso conto che avevo trascurato nella mia creazione una quantità di materiale tecnico e educativo, patrimonio delle Arti Marziali giapponesi, il Bugei. Per questo creai l’istituto Kobudō Kenkyukai di cui il caro Minoru chan era una delle mie punte, se non la principale.
DONN: Se non ricordo male l’istituto aveva un ampio programma, studiava varie Arti Marziali del Bujutsu: il Tenshin Shōden Katori Shintō Ryū, lo Shintō Musō Ryū, il Musō Shindō Ryū, varie altre scuole di bastone lungo e medio, il Bō, il Kendō, Jū Jutsu antico e l’Aiki Budō di Morihei Ueshiba sensei.
KANŌ SENSEI: Si, erano proposte in cui i miei elementi di punta potevano trovare, ognuno secondo le sue preferenze, la risposta che cercavo. Dovevano studiare e riferire, ne parlavamo in un circolo composto dai miei alti gradi, lo studente-esploratore, ed io. Per noi giapponesi, per tutti gli orientali in genere, la capacità di adattamento è quella di percepire le mutazioni nelle cinque energie celesti e nelle cinque energie umane, fluire con esse o, alchemicamente, molto difficile ma possibile se gli Dei lo hanno previsto, modificarle.
IO: Kanō sensei, possiamo approfondire questo punto più tardi? Aspetto altri ospiti che possono contribuire alla discussione.
KANŌ SENSEI: Certamente!
DONN: Allora affrontiamo circa l’introduzione di tecniche d’allenamento “esterne” in una disciplina di Arti Marziali!
IO: Si. Inviterei proprio te, Donn, a iniziare la discussione. Tutti siamo d’accordo che la pratica sportiva, soprattutto col giusto accento decoubertiniano sia una attività che tutti possono fare a fianco di un Arte Marziale. I punti sono sia la compatibilità tra l’attività sportiva e quella marziale, sia quanto siano gestibili i quantitativi dell’uno e dell’altra. Prima ti faccio una domanda su una situazione limite: come vedresti l’introduzione di questo tipo di tecniche sportive nel Katori Shintō Ryū o in un altro Koryū Bujutsu?
DONN: Se io vado a correre, nuoto, faccio pesi all’esterno dell’attività marziale non ci sono problemi. È un discorso di miglioramento generale delle mie caratteristiche fisiche. Ma, per quanto riguarda sia il Katori Shintō Ryū o altro Koryū Bujutsu le scuole contengono già in esse tutte le pratiche e le tecniche adatte al rafforzamento specifico, al miglioramento delle doti specifiche. Le scuole marziali tutte promuovono la costruzione di un corpo specifico adatto al Waza e all’Heihō che la scuola stessa ritiene corretto. Allo stesso tempo questa stessa attività mantiene il corpo attivo, abile, in salute. Se vogliamo dare un esempio di un modo di poter usare in modo utile l’attività sportiva generica e quella specifica dell’Arte Marziale posso citare una possibilità che illustrai anni fa: in gruppo salire di corsa una collina e, arrivati in cima, eseguire subito un certo numero di Kata della propria disciplina marziale, nel mio caso proponevo i Kata dell’Omote no Tachi del Katori Shintō Ryū o alcune serie del Shintō Musō Ryū. Questo scenario dà la possibilità di controllare quanto si riesce ad essere corretti ed accurati in una situazione di debito fisico.
KANŌ SENSEI: Io introdussi molta attività sportiva occidentale, atletica, sport di squadra, nuoto e anche semplici passeggiate ed escursioni nell’ambito della scuola giapponese. Ovviamente promossi il mio Jūdō e il Kendō, ma non li imposi mai e tenni separate le cose. Il problema, soprattutto oggi, è capire quanto tempo si ha a disposizione, quali sono i carichi che si possono affrontare senza andare in eccesso, quale attività è più importante. La pratica di un Arte Marziale deve essere sempre intrapresa attraverso una scelta cosciente e con un solido impegno. Sono cose difficili, oggi. Diciamo che un principiante può oscillare tra questo e quello ma, se si decide di praticare, tutte le altre attività di tipo sportive vanno ridotte o modulate in modo da non parzializzare la pratica marziale o di interferire con gli obblighi e i fatti della vita personale. Il contrario è errato. Se poi chi pratica l’Arte Marziale è continuo, la apprezza, approfondisce la conoscenza, scala i gradi e magari diventa correttamente un istruttore, la cosa cambia. Il suo impegno diviene primario e l’Arte Marziale diventa parte della vita perché è vita. Perché il concetto è che tu “adotti” l’Arte Marziale come modo di vita e percorri la tua Via che è quella stabilita dai fondatori dell’Arte Marziale stessa.
DONN: Se posso, Kanō sensei…
KANŌ SENSEI: Certo, Donn san!
DONN: Chi decide di insegnare ha degli obblighi. Può essere chiamato da un maestro, può sceglierlo lui di sua volontà. Comunque, è e deve essere un’azione volontaria. Come il mercante che ricorda Tesshū Yamaoka sensei tra le sue esperienze che lo portarono all’illuminazione, l’istruttore deve essere assolutamente indifferente all’aspetto finanziario e materiale, piuttosto deve aver cura della correttezza della trasmissione del Waza e dell’Heihō. Dipendere esclusivamente dagli introiti che gli possono procurare gli allievi è un rischio grosso su diversi punti di vista. Solo un pugno di persone per disciplina possono farlo e spesso cadono in fallo anche loro.
IO: Ora, se l’istruttore vuole introdurre tecniche da altre discipline, modi diversi di allenamento, pratiche atletiche da sport come dovrebbe fare? Io penso che ci dovrebbe essere un “posto di guardia” tra l’intenzione e il mettere in pratica. Il “posto” ha dei guardiani che fanno un’analisi: per prima cosa controllano se la tecnica o la modalità d’allenamento non esistano già nella disciplina. Nelle Koryū in genere c’è, occorre cercare e questo dipende dal grado di approfondimento del singolo istruttore. Questa situazione comporta un ulteriore passo, cioè chiedere un parere a un senpai istruttore se non ad uno shihan, che decide l’ammissibilità.
Nelle Arti Marziali moderne, fermo questo primo controllo, se non si trova niente di simile (che è difficile se si cerca scrupolosamente), occorre fare altri due controlli: la novità si accorda col “corpo” della disciplina? E poi: “funziona”? Ci vorrebbe un periodo di test prima di usarla nella disciplina stessa.
KANŌ SENSEI: Ottimo, Adriano san. Ai tempi, quando incontravo esperti stranieri di altre discipline studiavo la loro tecnica. Se ci fosse stato qualcosa che mi sembrava valido e includibile nel Jūdō, poi avrei radunato un certo numero di alti gradi e gli avrei dato il compito di studiare la tecnica per un anno, per verificarla. Se era approvata come valida, trovavo come collocarla. Uno degli scopi del Kobudō Kenkyukai era questo.
DONN: Ma il punto fondamentale è che ogni disciplina marziale ha una struttura fisica e didattica precisa propria. Sia antica che moderna. È un sistema integrato che vuole costruire un adepto specifico con il Waza e l’Heihō della scuola. Prima bisogna conoscere bene tutta la rete dei waza che compongono il Waza, quanto è contenuto nei Kata. A questo punto si può riconoscere un principio ed estrarre del materiale che può sembrare diverso ma in realtà è già contenuto. A questo punto l’elaborato dello studio si inserisce in modo legittimo e naturale. Se prendo delle cose da fuori, siano esercizi di potenziamento, siano tecniche o schemi di combattimento, e ce li appiccico così come sono, non faccio altro che “appiccicare”, appunto, materiale che non è omogeneo alla scuola. Gli effetti sono due: o il materiale estraneo viene col tempo rifiutato ed espulso, oppure si creerà un continuo accumulo che trasformerà la pratica di chi fa così in un coacervo di “cose” poco interagenti e la disciplina praticata non sarà più quella originaria ma un “non si sa bene cosa”.
In ognuno dei due casi è una perdita di tempo ed energia. Inoltre dimostra superficialità e mancanza di studio della propria disciplina.
IO: Spesso tutto si coagula attorno al regolamento di gara, quando presente…Ma nelle discipline moderne la gara è presente quasi dappertutto e molto invasiva…
Vorrei fare due esposizioni:
La prima riguarda il Katori Shintō Ryū. Seguimi Donn san. È perfettamente lecito formulare tecniche di potenziamento con Bokken di tipo suburito, più grandi e pesanti, o con repliche in acciaio, anch’esse più pesanti. Si potrebbe arrivare al grosso Furibō del “cugino lontano” Jikishinkage Ryū, sempre effettuando il movimento corretto. Similmente un lavoro di vari tipi di squat per facilitare i passaggi dalla posizione in piedi a quella accovacciata e viceversa. Possibilmente cercando di lavorare il più vicino ai movimenti dei Kata. E cose simili.
DONN: Si, corretto.
IO: Però, invece, è scorretto cambiare e usare in questo ambito posizioni tipo Kendō, o usare bastoni di gommapiuma in modo libero scimmiottando il Kata in maniera personale. Ci sono altre modalità lecite per studiare in Randori, dette-non dette e, giustamente, riservate a chi ne ha le possibilità tecniche. Al contrario, nel giusto modo, potrei usare dei principi del Katori Shintō Ryū, sempre nel modo idoneo e con misurazione e riservatezza, nel Kendō, nell’Aikidō, nel Kenpō o nello Yōseikan Budō. Non pensi?
DONN: Si, ma sarebbe meglio, nel caso del Kendō, farlo con praticanti che usano regole estese, all’antica. Io facevo andare in tutte le furie i miei amici kendōka perché li colpivo alle gambe, tiravo tagli montanti, e cose simili…
IO: Kanō sensei, vorrei parlare del caso di una scuola moderna, un Gendai Budō come lo Yōseikan. Un esempio di uno studio “lecito” è un tipo di ricerca di lavoro di potenziamento fisico sulla posizione detta Happoken (Hiroo Mochizuki sensei in un libro l’ha chiamata Neko Ashi Zen Kutsu Dachi), lavorando su piegamenti, affondi, allungamenti, lavoro sulla cerniera tra torace ed addome (importante) e anche lavorare sulla tonicità muscolare per fare evasioni esplosive con la gamba tipo Nami Gaeshi Ashi Uke su più assi.
Un altro esempio dal punto di vista tecnico tattico una ricerca appropriata è sui diversi principi e conseguenti modalità di realizzazione delle quattro diverse tipologie di parata-attacco nel primo Happoken e il lavoro sulla “misura” per applicarle.
Questo è un lavoro lecito ed impegnativo per un buon istruttore. Deve anche tener presente che un movimento, un’Onda-Shock, contiene anche l’ipotesi del suo opposto. Sempre applicando però il principio contenuto nel Kata. Gli Happoken, soprattutto i primi tre, mostrano il modo in cui un adepto di Yōseikan Budō dovrebbe agire e studiare primariamente nel Randori e nel Goshinjutsu. “Primariamente” significa che indica il Waza e l’Heihō che deve essere usato sin dall’inizio. Le modalità espresse dai Kata successivi sono, appunto “successive” e si devono inserire sullo scenario primario progressivamente in seguito.
Secondo me costruire nell’allievo, in modo alternativo, una impostazione da Contact o basata sul rendimento in gara, falsa in modo assai pesante tutto l’approccio alla disciplina e alla scuola Yōseikan, sopprimendone le caratteristiche distintive.
KANŌ SENSEI: Ottima esposizione della tua tesi, Adriano san. Posso fare un altro esempio, un argomento su cui sempre ho insistito: il Randori e lo Shiai del Jūdō va condotto “come se” i due antagonisti potessero usare colpi di qualsiasi tipo. E questo va approfondito attraverso il Kime no Kata.
IO: Bella discussione. Vorrei però proporre una pausa, prendiamo del Tè.
KANŌ SENSEI: Si, mi pare un’ottima idea. Adriano san hai quei gustosi biscotti siciliani cosparsi di semi di sesamo? Li trovo buoni e molto energizzanti per le proprietà di questi semi!
IO: Si, sensei. Noi li chiamiamo “Biscotti Regina” con i semi di “cimino”. Mi spiace di non avere Tè di Shizuoka, ma è difficile trovare Tè giapponese in Italia.
KANŌ SENSEI: Ah, il caro Minoru san me lo portava, a volte.
IO: Ho del Lapsang Souchong della Fortnum and Mason.
KANŌ SENSEI: È ottimo!
DONN: C’è il modo di “rinforzarlo” un po’?
Io: Un goccio di Glenfiddich?
DONN: Magnifico!
Così diamo anche tempo agli altri ospiti di arrivare. Verranno con Giacomo…
KANŌ SENSEI: Ah, il buon Giacomo, sarà interessante!
[nota per i lettori: Giacomo è un mio “spirito guida”. Fu una antica divinità indo-europea dei confini tra le terre e le acque oceaniche, poi si reincarnò molte volte come Apostolo, uccisore di mori, come re conquistatore, capitano di ventura, uomo di mondo, spadaccino e letterato, fine poeta e filosofo, scienziato, pittore, compositore lirico e altro ancora]
[nota due: le parole “dette” da Jigorō Kanō sensei e da Donn F. Draeger sono estratte da loro testi e interviste]
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