La Pratica delle Scuole Koryū e i loro Santuari di riferimento, tra ortodossia ed eresia.
Malesseri e ricerche nella tecnica, nella didattica e nell’Heihō.
Identità
Pratico Arti Marziali da quasi sessant’anni e, come la
maggior parte delle persone della mia generazione, ho iniziato con il Jūdō e il
Karate. Allora credevo che fossero le uniche, poi ho saputo anche del Kendō e
dell’Aikidō. Ancora dopo ho appreso che queste discipline erano nel gruppo
chiamato Gendai Budō, ovvero le discipline moderne con l’obiettivo principale
dello sviluppo personale nel fisico e nella mente.
Più avanti, a venticinque anni, mi sono impegnato nello
Yōseikan Budō, che è una scuola diversa, quasi un ponte o una simbiosi tra
queste arti moderne e le scuole “antiche” o Koryū, le Arti Marziali classiche antecedenti
all’età della modernizzazione del Giappone.
Infine, tra poco saranno passati i trent’anni, iniziai la
pratica di alcune di queste Koryū senza tralasciare lo Yōseikan Budō e i suoi
rami. La mia naturale curiosità di studioso mi ha portato e ancora continua a
portare a cercare riferimenti, testi, testimonianze, articoli che mi consentano
di approfondire ogni aspetto delle discipline.
Metodo del Bugei
La pratica delle discipline orientali comporta
interfacciarsi con esercizi di contenuto tecnico, tattico e oltre, chiamati
Kata. Per l’occidentale medio questo è un rapporto difficile sia per la sua
formazione mentale media, sia per i “passaggi di conoscenza” che gli stessi
maestri orientali impongono prima di aggiungere spiegazioni e suggerimenti alla
pratica.
La stessa struttura di questo rapporto interculturale dove
in ambedue le parti ci sono delle rigidità fa sì che si formino
fraintendimenti.
Questo succede nella stragrande maggioranza dei casi:
conseguenza è che il Kata viene rinnegato (in diversi modi) dagli occidentali o
che i maestri orientali decidano di limitare i possibili insegnamenti fornendo
una “versione ridotta”.
Esperienza
In queste righe voglio precisare alcuni “malesseri” che
provo nell’esercizio e studio dei Kata delle Koryū che pratico, che possono
essere anche un esempio per la generalità dell’argomento. “Malesseri” che riesco
a distinguere, anche se non confessati, anche nei miei “colleghi” nelle
occasioni dei seminari.
Nel mio studio affianco alla pratica fisica un continuo
studio, una continua ricerca nella cultura specifica, nel “corpus” culturale
delle discipline che studio, in tutto il complesso dele Arti Marziali Koryū e
Gendai Budō, senza tralasciare ricerche e pratiche in quelle cinesi o del Sud-Est
asiatico, nella storia, letteratura, filosofia, religione ed antropologia del
Giappone e dell’Estremo Oriente.
Soprattutto l’uscita di diversi testi “riservati” delle
mie scuole o di altre scuole storiche, di scritti dei maestri dell’età moderna,
ha prodotto riflessioni e prese di coscienza che necessariamente definiscono un
modo diverso di vedere e fare la mia pratica.
Definizione
Nelle Koryū che pratico (ma quanto affermo si più
estendere a tutte quelle conosciute) la costituzione stessa del Bugei (il
complesso totale del “marziale” giapponese) dice che i Kata contengono due
“Ken”.
Il Ken [剣] è la “Spada a due taglienti”, forma
ancestrale dell’arma giapponese attribuita anche alle armi degli Dei. Dei due
Ken uno è la spada mentale e spirituale, l’altro la spada fisica e tecnica. La
mentalità occidentale tende a separare, distinguere, contrapporre, analizzare.
In realtà tutte le dualità come quelle espresse dal sistema Yin-Yang o dalle
contrapposizioni dualistiche occidentali si fondono infine in un’unica cosa.
L’aspetto strategico e tattico detto Heihō [兵法] è quello che unisce i due aspetti in un
concetto singolo e plurimo. Così abbiamo:
-
La Spada “interna” del Kata, per cui i
movimenti costituiscono una “preghiera” o atto magico divino che agisce sulle
forze universali: Tai Ji, cinque elementi cosmici, cinque elementi umani,
Hakkyoku, altro.
-
La Spada “esterna” vale a dire gli elementi
biomeccanici, tecnici, strategici e tattici della vittoria in combattimento
(individui o schiere, campo militare o politico)
Ambedue le “Spade” dovrebbero essere progressivamente
presenti nella “sensazione” del praticante-adepto che si origina e cresce
attraverso la pratica continua e corretta dei Kata ed altri esercizi di una
Scuola; all’inizio la percezione e l’azione si rivolgono prevalentemente
sull’aspetto “esterno e fisico” mentre l’altro aspetto dovrebbe essere
percepito e/o “rivelato” nel perdurare della pratica.
Realtà
Oggi la pratica di una Koryū viene effettuata quasi
esclusivamente ripetendo i Kata (in genere a coppie) con l’istruttore o dei
compagni, alternando i due ruoli (altro apparente dualismo) sempre presenti di
Kirikomi (Tsukaite) e Ukedachi (Aite).
Questo tipo di studio si forma partendo dai seminari, dove
si insegna e si ripete ogni sequenza fino ad esaurire tutte le serie conosciute,
con eventuali correzioni puntuali in caso di inesattezze. Questa modalità di
pratica nei seminari costituisce a sua volta l’esempio per la pratica presso i
propri Dōjō e così in questi viene effettivamente realizzata.
Una variazione, nel caso di Kata formati da varie “figure”
da ripetere secondo un ordine stabilito, è l’isolamento e la ripetizione di
alcune di queste figure volta per volta per migliorare i particolari
dell’esecuzione.
Dubito, ergo sum?
Queste due possibilità, a pensarci bene, non sono che
“una” parte dello studio che andrebbe fatto. Anche se questi due modi sono
fondamentali non bastano.
Perché?
Guardiamo bene:
- la ripetizione avviene, anche se corretta, in un modo che
è fine a se stesso. L’idea imperante di chi esegue è solo quella di completare
il Kata o la serie di Kata con la convinzione interiore di eseguire un compito,
cercandolo di fare nel migliore modo possibile, quello ritenuto “corretto”;
- ci sono tracce concrete, anche se spesso nascoste, di
altri tipi di allenamento che avvenivano nelle Koryū come Tameshigiri (prove di
taglio) su diversi tipi di bersaglio, esecuzioni con lame vive o Shinken, forme
varie di Randori, impegni in sfide o Taryu-jiai.
È successo, una operazione di cui si possono trovare molte
tracce e “pistole fumanti”, che nella seconda metà del Novecento, nell’espandersi
della diffusione delle Arti Marziali nel Mondo, anche quelle che non erano strutturate
per diffondersi, anche in seguito alla sconfitta e alle perdite subite nel
conflitto, sia stata tracciata una linea para-etica e tendente a creare delle
semplificazioni di ordine simbolico. Inoltre alcuni dirigenti hanno mutuato
molto del mondo sportivo agonistico occidentale. Ne è uscito un qualcosa un po’
falso e equivoco, che ha colpito soprattutto le forme Gendai Budō come Jūdō,
Karate, Kendō, Aikidō ma, indirettamente, ha creato delle risonanze anche nelle
Koryū.
Sensazione, percezione
Esiste una sensibilità diversa di percezione delle
discipline marziali se la propria esperienza comprende forme di combattimento
sportivo e no. Quanto vedo osservando l’esecuzione dei Kata o di Jō di una
Koryū (e nel Gendai Budō) la mia sensazione è che gli esecutori hanno una
specie di fretta/non-fretta nella rappresentazione di un Kata, di ogni Kata.
Così è, anche se gli esecutori rispettano i dettami di tecnica, il ritmo, la distanza
e tutto il resto, perché risulta evidente che l’esecuzione “completa”, magari
ripetuta più volte con vari diversi partner, diventa più importante della “immedesimazione”
in ogni singola sequenza stessa e non vengono approfonditi i singoli scambi, le
possibili variazioni, gli incroci, gli elementi di “sensazione”, i principi
fondanti radicali.
Di conseguenza si perdono tutte le possibilità di
“lettura” del singolo e della combinazione, le mutazioni degli elementi, i segnali,
l’alternarsi delle possibilità vittoriose, i tranelli che portano a sconfitte,
le fluttuazioni potenziali. In definitiva, si rimane ingessati e non si può
raggiungere la completa comprensione e spontaneità attraverso la sperimentazione
e riconoscimento del principio nelle sue mutazioni.
Ribadisco la mia doglianza: nella ripetizione formale, la
frenesia di “fare” la tecnica (frenesia che esiste anche se l’esecuzione è
formalmente perfetta, con tutti i tempi delle tecniche e fra le tecniche
rispettati, così come le entrate e le uscite dall’area dell’Enbu) ha come
conseguenza che si smette di “ascoltare” la tecnica stessa, il suo valore
energetico, le mutazioni che accetta, affronta, armonizza o annulla.
In parole povere, dal “versare il sangue” in combattimento,
che è la base fondante, la spirale montante verso l’energia sottile e il nucleo,
via via verso l’alto, attraverso la percezione dei mudra, mantra e mandala
contenuti e, infine, alla “gestualità divina” che intesse la realtà.
Esprimo ancora: il modo generalmente usato non si
percepisce il movimento matrice e tutte le sue implicazioni. La struttura del
gesto evidente del Kata è la parte esterna, ma senza completarla non si riesce
a percepire la Matrice. Di conseguenza sfuma l’azione sciamanica e benefica che
dovrebbe agire su se stessi e sull’ambiente, quello di pratica e quello
generale (chiamiamo questa “magagna” col suo nome: non si raggiunge il “nucleo
divino” e la sua conoscenza gnostica).
La mia proposta a me
Cos’altro va fatto, negli incroci fra le due “Spade” che
la mentalità occidentale moderna spesso non riesce a riconoscere? Come molti
testi e maestri suggeriscono, occorre partire dalla “Spada Materiale”:
- occorre ricercare l’applicazione randori e shiai
(secondo i principi progressivi di studio come quelli della “scala a
chiocciola” o del “cerchio” o dei “Sei Strati”) cercando di capire “come dove quando
perché” si realizzano i contenuti nel Kata;
[I “Sei Strati” sono principi dello Shindō Musō Ryū,
scuola che deriva dalle discipline di Katori e Kashima: 1] Kihon waza 基本 技 (Tecnica Fondamentale); 2)
Teigi 定義
(Definizione); 3) Oyo 応 用 (Applicazione); 4) Gainen 概念 (Concetto, idea); 5) Kotsu
骨
(“Osso”, Segreto); 6) Kaewaza 変 え 技 (Variazione, alternativa);
-
la “scala a chiocciola” è un principio di Jū
Jutsu antico che parte da una esecuzione svolta nel modo più semplice, a cui si
aggiungono progressivamente delle difficoltà da superare per accostarsi infine
al padroneggiare la tecnica in ogni circostanza;
-
il “cerchio” è un principio simile che invece
si rivolge all’ampiezza del movimento, prima massimizzato per poi essere
ridotto progressivamente all’essenziale man mano che viene padroneggiato.]
- per fare un esempio nella disciplina Koryū che pratico
da più tempo, vale a dire il Tenshin Shōden Katori Shintō Ryū, già nel primo
Kata/jō di Kenjutsu sono presenti delle azioni tattiche esemplari che ad occhio
attento si possono identificare in quelle che, più tardi, in scuole più giovani
come l’Ittō Ryū, il Kashima Shintō Ryū e il Kashima Shin Ryū, sono chiamate
rispettivamente Kirioroshi, Hitotsu no Tachi e Otonashi no Tachi. Dal movimento
fisico si riesce a distinguere il momento tattico. Da questo è possibile,
sentendo il corpo, l’arma e il cuore (Ken Tai Shin Ichi), arrivare all’Heihō
culminante. Almeno occorre provarci.
[Dovrei forse fare degli esempi o indicare delle modalità d’esercizio. Penso che non sia questo scritto il luogo adatto, dato che ha solo intenzioni di introdurre e proporre. Ci si riserva per il futuro secondo l’evoluzione della presente comunicazione.
Si sappia che i modi ci sono, senza bardarsi di complesse
protezioni o sostituire le armi con repliche gommose o ammortizzanti.]
Il Dio muove la Spada per Pacificare il Paese, così nella
forma è celato l’aspetto noumenico e di matrice universale. La pratica risolve
il conflitto perché chi devia dalla “Via degli Dei” può riconoscere nel “Bushi”
che la applica la ragione e abbandonare il suo errore. O sottomettersi alla
punizione celeste.
Quanto dico su questa modalità di indagine tecnica apparentemente
non è in linea con l’aspetto dell’insegnamento che attualmente i Maestri
offrono. Non è una contestazione, ma la necessità di approfondire lo studio per
comprendere l’oggetto dello studio senza “romperlo”, come spesso si fa nella
scienza moderna, bensì lasciandolo fluire e osservando quanto succede.
Ancora delle idee su come fare:
- leggere le sequenze secondo il sistema dei “Sei Strati”
e gli altri suddetti, inoltre analizzare l’azione, per esempio secondo un
sistema di fluire didattico che mi appartiene, il sistema Yōseikan: uno è
“vince il vincente, vince il perdente”, un altro il noto “e se…”, poi altri,
confrontandosi con le proprie esperienze di combattimento e scontro.
Cosa NON fare:
- Eseguire solo la ripetizione per la ripetizione o dare
più importanza alla forma esteriore rappresentativa e di contorno che
all’aspetto Shinken Shobu (nella Vita e nella Morte si trova il punto
cruciale).
Avviso
Quanto ho scritto non è assolutamente una cosa alla
portata di tutti. Già nelle scuole c’è spesso la cattiva abitudine da parte dei
molti praticanti di ritenersi in possesso di una tecnica migliore del suo
prossimo basandosi solo sul numero di sequenze che si conoscono.
Invece lo studio che propugno, secondo me, può essere affrontato da chi possiede una pratica più che decennale (facciamo ventennale) nella scuola, che ha esperienze di pratica di combattimento in altre discipline e/o, magari, abbia vissuto esperienze di combattimento reale. Per cui, sempre personalmente, ritengo che sia importante una pratica da molto tempo di altre discipline di Gendai Budō, parimenti il possesso di una più che approfondita conoscenza ed attitudine allo studio delle basi culturali della sua Koryū, del Bugei e del Giappone e, per evitare sconnessioni, anche una buona conoscenza della propria cultura identitaria civile e militare.
Poi questa persona può dirigere il suo gruppo di studio
formato da suoi allievi o simpatizzanti più giovani. Ma non meno.
Personalmente sono fermamente convinto che la formazione
originale nei principi, nella filosofia e nella didattica della scuola
Yōseikan, insegnamenti ricevuti direttamente dai maestri fondatori, sia
importantissima. Per altri la scintilla motore può ovviamente avere altre
origini.
Riflessione molto profonda ed interessante. Nel mio piccolo, mi limito ad osservare come nella pratica memorizzata di un kata a coppie, se il "meno esperto" esegue un taglio o un affondo diverso dalla sequenza imposta, chi esperto ne resta sorpreso, poi lo rimbrotta ricordandogli la corretta successione dei gesti. Forse, se il kata fosse davvero interpretato come formazione allo scontro, come formazione all'intelligenza motoria, l'esperto dovrebbe prima chiedersi come mai si sia fatto sorprendere, quanto "esperto" realmente sia se si è trovato indifeso e vulnerabile. Credo che partire da questa banale mia considerazione potrebbe stimolare ad una diversa pratica e visione dei kata a coppie. Sempre se inserita in una didattica ed andragogia in cui ci sia spazio per una relazione esperto e non esperto e non invece la convinzione che ci sia uno che sa, possessore del sapere ed uno che ignora, su cui riversare il sapere presunto, foglio bianco su cui scrivere il Verbo.
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