Lo “SHU” di
“SHU-HA-RI”
Base di Apprendimento
e Conoscenza
Cos’è
lo Shu-Ha-Ri?
Lo studio
delle Arti Marziali giapponesi secondo la didattica tradizionale si attua
attraverso il rispetto di una “triade” di principi/livelli, chiamati Shu-Ha-Ri
(守 破 離). E’ un sistema che più volte, per esempio nell’ambito
della scuola Yōseikan, Minoru e Hiroo Mochizuki sensei hanno citato, spiegato, ne
hanno raccomandato l’applicazione.
Si tratta
di una dinamica progressiva con cui va affrontato l’apprendimento di una
disciplina. Lo stadio iniziale, Shu (守): a questo livello lo
studente deve evitare qualsiasi tentazione di personalizzare la sua pratica.
Qualsiasi riferimento a “Io” ed “Ego” va cancellato. Tutto deve essere
indirizzato all’esatta imitazione del proprio maestro. La tecnica va assunta in
quanto tale, assoluta, come una realtà individuale, senza elaborazioni o
interpolazioni. Va studiata finché non si riesce a eseguirla in modo regolare,
senza bisogno di mischiarla ad altre o ricorrere a scorciatoie.
Stadio intermedio, Ha (破):
è il pieno possesso della struttura, il movimento del maestro e la biomeccanica
della tecnica. A questo punto il praticante “rompe” l’abitudine, la struttura,
evolve la biomeccanica. e inizia ad uscirne. Testa i suoi limiti, intanto scopre
e cerca di padroneggiare i principi sommersi.
Stadio finale, Ri (離): lo studente è arrivato a possedere il
«corpo» della scuola, è libero di adattarsi momento per momento, sempre in
armonia coi principi e i modelli proposti dalla scuola stessa.
Bisogna dire che già arrivare ad «Ha» è un lavoro lungo,
molto lungo…. La maggior parte dei commentatori e studiosi colloca questo
stadio, secondo le discipline, tra il terzo e il quinto Dan.
Esiste
un'altra scala di fasi d’apprendimento, che fa riferimento, però, più alla
singola tecnica:
Keikō
(praticare per imparare), Renshu (praticare per allenare), Tanden (la tecnica,
compresa, viene “interiorizzata” nel Centro corporeo), Kufu (la pratica
“avviene” senza bisogno di un atto cosciente), Shugyo (la tecnica e l’individuo
sono uno).
I primi
tre/quattro punti sono competenza del livello “Shu”.
SHU è il
livello base, importantissimo, che viene quasi sempre non compreso o
mistificato.
Un fondamentale
principio mal compreso
Quando lo
studente occidentale si trova di fronte alla fase iniziali di apprendimento di
una disciplina – che, per essere precisi, è qualcosa che continua anche dopo il
conseguimento del I Dan/Cintura Nera – cade in errori di “falsa cultura” che
creano gravi problemi alla sua pratica.
In Oriente
come in Occidente la progressione di apprendimento prescrive che l’allievo
“copi” l’esempio, così vengono imposti esercizi ripetitivi monitorati con
attenzione. Nel caso delle Arti Marziali orientali l’esempio da seguire e
copiare è dato proprio dal maestro presso il quale si istruisce l’allievo,
collaborato dagli allievi anziani (i “senpai”). Questi ultimi devono stare ben
attenti a guidare il giovane allievo affinché imiti il maestro e non loro,
consigliandolo (e rimproverandolo, eventualmente) in questa prospettiva.
Mentre nel
mondo sportivo, o quello artistico (pittura, scultura, architettura,
letteratura, etc.) questo apprendistato è accettato tranquillamente, spesso nel
mondo delle Arti Marziali, sarà il termine “arte” che crea un equivoco, gli
allievi tendono a scantonare dal precetto del “seguire l’esempio”. O a
mistificarlo.
L’istruttore,
normalmente, guida il principiante (ricordo che questo appellativo vale in modo
continuato fino al raggiungimento della cintura nera – I Dan) alternando
suggerimenti e imposizioni. Deve essere “duro” se l’allievo tende a scantonare,
più morbido se l’allievo invece segue le prescrizioni.
Normalmente,
tra gli allievi, spesso si formano due atteggiamenti eccessivi, che vengono a
loro volta esaltati da ambienti dove l’istruttore ha scarsa formazione (corsi
di “insegnamento all’insegnamento” brevi e lacunosi, mancato apprendistato
sotto un maestro autorevole) e/o una esperienza limitata (solo tipo agonistica
o ricreativa).
Il primo
atteggiamento eccessivo si attua inquadrando militarmente l’allievo, ponendolo
in uno schema rigidissimo – schema che l’insegnante, a sua volta, ha capito
solo superficialmente – e lo si tiene là, limitando il patrimonio tecnico ben
presente nei Kata, a pochi movimenti ripetuti senza “modulazione”. E’ proprio
questa modulazione che è il sapiente “gioco” del buon istruttore, consiste in
variazioni di carichi, ritmi, trasversalità. Questa ripetizione “sterile” non è
veramente la giusta “copiatura” dell’istruttore – che è il passaggio della
conoscenza da corpo e mente a corpo e mente – ma un modello standard
impersonale imposto alla massa.
Nell’altro
atteggiamento, l’allievo recepisce l’esempio e la ripetizione dei moduli come
una “coercizione” alla sua personalità e al suo spirito “creativo”. Passato il
primo apprendistato, già raggiunti i primi “gradi base” sente di aver capito e
si mette a dare sue versioni del movimento o si arroga di scegliere soluzioni e
composizioni. Se i primi tempi può sembrare che ci sia un miglioramento – che è
solamente apparente – ben presto non si cresce più e ci isterilisce nel fare
solo quello che si pensa di sapere fare, rifiutando ogni indicazione, ogni
insegnamento che cerchi di aggiungere e far crescere attraverso l’acquisizione di
schemi più disciplinari, organici e potenziali nella previsione progressiva del
programma della Scuola. La crescita è finita.
E “Shu” è
stato, nei due casi, mistificato.
SHU (守), come si affronta e
si pratica (e, un giorno, si supera)
Come
abbiamo scritto sopra, la fase “Shu” è piuttosto lunga. Pur facendo presente
che ha una sua elasticità e plasmabilità interna, questo avviene “poco e dopo”,
e va somministrata con molta attenzione dall’istruttore.
L’ideogramma
守 “Shu” è composto da due radicali: “宀”, che
significa “Casa”, e “寸” che
significa “stare fermi, non muoversi”. Il senso generale è “custodire”, “obbedire”,
“proteggere”.
La fase
Shu è oltre il conseguimento del I Dan e arriva, secondo le discipline, fino al
III/V Dan. Ovviamente non ci sono stacchi netti, ma un progressivo passaggio
alla fase successiva, con tanti piccoli “Satori” (illuminazioni) su singole
tecniche, principi base, significati del movimento.
La fase “Shu” è quella dell’apprendimento delle tecniche
di primo livello, vale a dire le tecniche che formano le fondamenta e la
struttura della Disciplina. Queste tecniche devono essere conosciute, ripetute
ed interiorizzate ognuna per se, sia dal lato di chi le fa, sia dal lato di chi
le subisce (Uke). Sono i punti Keiko, Renshi, Tanden, Kufu di cui sopra. E’ un
errore insistere su combinazioni o controtecniche fino a che questa fase non è
ben acquisita. Lecito invece insistere sul linguaggio schermistico (che non si
limita alle armi, ma è un concetto e una modalità presente anche a mani nude:
colpi, proiezioni/leve/strangolamenti, lotta a terra), vale a dire Ma-Ai
(Misura), Do-Ai (angolo), bersagli/guardie (Kamae), Hyoshi (Ritmo), iniziativa
(Sen) e altre cose.
Occorre arrivare alla esecuzione della tecnica in modo
valido (non in senso agonistico) – in relazione al proprio grado di conoscenza
– secondo le opportunità, i principi, lo Heihō (strategia e tattica). In modo
di “come fare” viene trattato in ogni disciplina nei Kata, singoli o a due, che
si interfacciano, secondo i modi voluti dalla scuola e progressivamente mostrati
dall’istruttore.
L’istruttore/maestro è tutto, nello “Shu”.
Lo è sempre, ma qui ci si identifica in toto, poi ci si
staccherà progressivamente e servirà come riferimento nella personalizzazione.
Ovviamente è indispensabile che l’incarico di istruttore sia
stato adeguatamente acquisito. Questo vuol dire uno studio attento al di là di
semplici idee ricreative, sportive o hobbistiche; una propensione allo studio e
alla ricerca sia nel campo della Disciplina, sia interesse a quanto può essere
complementare o ausiliario; un adeguato apprendistato con il caposcuola o uno
dei suoi primi allievi; uno studio continuo che non si arresta ma si espande.
Così l’allievo deve rivolgersi al suo maestro, cercando di
“fotocopiare” il modo con cui esegue le tecniche. E’ l’esempio migliore che ha
a disposizione, di conseguenza il miglioramento è strettamente dipendente dalla
sua applicazione a “copiare”, “appropriarsi” della sua tecnica (Waza, che ha
implicazioni su più campi). Cercare una espressione propria, individualistica,
è un enorme errore che avrà altrettanto enormi conseguenze negative.
L’istruttore ha già passato alcune fasi dell’opera
alchemica di se stesso. È la guida, colui che ha già fatto i passi che
l’allievo è chiamato a replicare. Gli farà evitare i falsi labirinti, le vie
sterili, gli errori senza fondo, lo metterà alla prova offrendogli i giusti
ostacoli e le opportune sciarade, così che proceda nella via della iniziazione.
La tecnica della disciplina, attraverso le ripetizioni,
forma il complesso corpo/mente/anima dell’allievo, seguendo la forma-esempio
dell’istruttore. Fermarsi all’apparenza visiva è errato, è la trappola degli
stolti, che si fermeranno imprigionati dalle apparenze. Ripetendo e lavorando,
comprendendo la forma e studiandola nel Randori, nel confronto di studio e non
agonistico, non egoistico, che evita la ricerca dell’affermazione, ma piuttosto
della comprensione.
Col tempo e con la cancellazione dell’individualismo nello
“Shu” si arriverà a vedere quello che c’è “oltre”.
Sarà passato Tempo, e sarà la volta dello “Ha”.
“Shu” è la coscienza di Non Sapere, la resa di affidarsi totalmente
all’insegnante, colui che già è stato prima, e incidersi addosso le singole,
pure tecniche base della Disciplina.
La
dinamica di una tecnica
Ogni tecnica ha una dinamica come esistenza ed essenza,
che può essere riassunta in un percorso simile:
-
nasce dal Vuoto, è Vuoto, potenzialità
assoluta;
- si
carica di energia, ancora indistinta;
- si
scinde nelle due polarità, Inn e Yo (Tao);
- dalle
due polarità conosce le quattro direzioni e i quattro stati delle due energie;
- riconosce
il suo centro, ora è cinque, come i cinque elementi e mutamenti;
- si
organizza secondo le otto direzioni, e ne dà due letture (Ba Gua);
- definisce
il suo modo e il suo sviluppo attraverso i sessantaquattro esagrammi (I Ching);
- è ed
agisce, definita, tra le diecimila cose.
-
si indefinisce, diventa Vuoto, torna nel Vuoto
Ancora due concetti di “modalità dell’apprendimento” da
riportare:
Uno dei metodi paralleli per l’allenamento delle tecniche,
ovvero la progressione dell'apprendimento tecnico del praticante, si basa su un
principio fondamentale riassumibile nella seguente espressione: neji
kaidan no yō ni jōshō suru, che tradotto significa "ascendere lungo
una scala a chiocciola".
In pratica, ogni
tecnica viene studiata in quattro livelli: nel primo, Uke non si oppone alla
tecnica di Tori; nel secondo, Uke inizia ad opporre resistenza, costringendo
Tori a perfezionare la propria tecnica; nel terzo, Uke tenta di sfuggire dalla
tecnica di Tori; nel quarto, Uke non solo cerca di sfuggire, ma a sua volta
applica una tecnica su Tori, che deve comunque portare a termine la sua azione
vittoriosa adottando/applicando variazioni della sua iniziale tecnica od altre
tecniche se necessario. Tutto ciò sviluppa nei praticanti ciò che viene
definito come "disponibilità variabile" ovvero la capacità di adattamento
alle mutevoli situazioni, fino ad arrivare al Randori, la pratica
libera.
Oggi è costume di tutti saltare le fasi per opporsi al
compagno e alla sua azione da subito, in una affrettata e superficiale
“modalità combattiva-agonistica”, giustificandosi poi che così la tecnica “è
più reale”.
La realtà è, invece, che si sta sbagliando tutto:
-
chi agisce non può studiare la tecnica perché
ostacolato da dispetti e indisponibilità;
-
chi dovrebbe subire, non sviluppa la sensibilità
adatta per sviluppare l’ “Ukemi”, la capacità di ricevere da cui verrà la
capacità di contrattaccare, o anticipare al momento giusto;
-
nessuno dei due progredisce, la tecnica non si
sviluppa né diviene patrimonio, si dice che “non è reale” e così si
giustificano le proprie incapacità;
-
il Randori, alla fine, sarà una sterile
ripetizione di poche tecniche eseguite a caso o facendo affidamento unicamente
a supposte doti fisiche;
E si
mistifica il Kata e, attraverso questo, l’intera scuola. L’adepto “fellone” non
matura il “Corpo della Scuola” (Ittai, Riai) e, in definitiva, si muove come un
qualsiasi altro mediocre studente di questo e quello, senza basi e né principi,
senza identità.
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