Yōseikan Budō: studiare un’Arte Marziale

Il recupero del concetto di “Sōgō” Bujutsu, Budō e Jū Jutsu.

Lo Iai (居合) come mezzo e motore di una pratica di livello superiore

 

In questi giorni contemporanei dove siamo costretti ad alterare le nostre vite per via della presenza del male-Covid, dobbiamo adattarci a procedere ai nostri allenamenti e agli studi con sistemi diversi da quelli regolari.

Cambiare è un sentiero con molte apparenze e sostanze. Le prime ingannano facilmente e portano a “mala strada”, al meglio solo una perdita di tempo. Le seconde non sono facili da trovare e, una volta percepite, saperle incastonare nella trama degli studi proficui.

Il tempo perduto, perché comunque si tratta di tempo perduto, fa risaltare maggiormente la giusta visione in cui inquadrare la pratica delle Arti Marziali, vale a dire praticarle e viverle come Arti Marziali – poi specificheremo il punto – e non come attività di fitness, di svago o di tipo sportivo/agonistico. Queste tre caratteristiche possono essere attraversate nella pratica, ma sono sempre dei mezzi e mai fini o occupazioni esclusive.

 

Le discipline che in genere conosciamo col nome non adeguato ma sufficiente di “Arti Marziali” sono concepite in origine come mezzi di sviluppo dell’individuo attraverso la pratica del “combattimento”. L’educazione del corpo, della mente e dello spirito attraverso queste discipline, ha in sé il noto precetto “si vis pacem para bellum”, raggiunto attraverso il rafforzare le numerose caratteristiche che qualificano un essere umano. Questo non è un invito al conflitto, piuttosto il contrario. La preparazione permette di capire le cause e agire per disinnescarle prima che deflagrino. Essere pronti scoraggia l’avversario che spia le debolezze, sapersi muovere riduce i danni e, nella necessità, aiuta a prevalere.

L’educazione dell’uomo in armi ha prodotti alcuni degli esempi più belli dell’essere, del sacrificio e della salvezza per la comunità. Opliti, Legionari, Guerrieri, Cavalieri, Samurai, Wuxia hanno scritto pagine di esempi veramente scolpiti nella pietra, nel metallo e sulla carta senza età dei poeti epici.

 

Pratica delle Arti Marziali come tali. In questo senso ci sono vari fili che vengono tessuti in parallelo fino ad arrivare a comporre trama ed ordito.

Sappiamo che le discipline orientali che si sono diffuse in Occidente dopo la Seconda Guerra erano “diventate” monotematiche, anche se in origine non lo erano. Così si alterò la realtà originaria e divennero:

-      Il Jūdō solo proiezioni e tecniche di lotta;

-      Il Karate solo pugni, calci e simili;

-      Il Kendō solo scherma con la spada;

-      L’Aikidō una forma di lotta con movimenti più ampi e più leve articolari;

-      Lo Iaidō solo una forma di estrazione della spada.

Poi c’era una cosa strana che veniva etichettata come Jū Jutsu, dove alcuni istruttori occidentali avevano mischiato gruppi di conoscenze, un po’ di questo, un po’ di quello, che non erano tenute insieme né da principi, né da illuminazioni, e li portavano in giro, a volta con qualche logica, molte volte no.

Poi vennero altre discipline, più integrali, il concetto espresso in Giappone dalla parola “Sōgō” (総合), ovvero “complete in ogni aspetto del combattimento” e i ricercatori si resero conto che anche le altre discipline che ritenevano “monotematiche” in realtà avevano uno spettro tecnico molto più ampio. Il pubblico fece resistenza, ritenendo l’addestramento integrato impossibile, ma poi fu smentito da alcuni fenomeni, come le MMA, che sono comunque, sempre, esempio di una visione restrittiva.

 

La scuola Yōseikan è stata, dagli anni ’70, ancora una volta motrice di conoscenza. Purtroppo, come accade regolarmente, nell’espansione gli elementi fondanti si sono diluiti e confusi nella brodaglia del pensiero comune medio. Occorre ripartire e questo può avvenire solo attraverso lo studio comparato e la presa di coscienza del suo essere Arte Marziale su tutto il resto.

 

In questa ricerca marziale occorre comparare i principi che legano tra loro le tecniche a mani nude e quelle con le armi. Queste ultime, ribadiamo ancora, rappresentano il vertice assoluto di raffinatezza e rigore dello studio del combattimento, l’esempio che più di tutti si avvicina alla perfezione con punte che arrivano a sorpassarla.

Lo Yōseikan Budō è una specificità della scuola fondata da Minoru Mochizuki sensei, scuola che si proponeva come un vero istituto di ricerca, erede del Kobudō Kenkyukai di Jigorō Kanō sensei che doveva completare il Jūdō. Identificare i principi tecnici e didattici non è facile, e riservo ad una pubblicazione futura la trattazione completa (per quanto possa essere “completa” un’opera di questo tipo…). Ora, qui, traccio alcune linee di azione e connessione dello Yōseikan Budō, nei suoi “libri/Kata” di riferimento:

-      Ken Kihon Kumite, Kata di spada (Ken [], non Tō [], con tutto quello che significa e ne consegue), contiene strategie, principi, indicazioni di “misura” (Ma), “iniziativa” (Sen), “ritmo” (Hyōshi) e “sensazione” (Yōmi);

-      Tai Sabaki no Kata, Kata a mani nude che inquadra diversi dei punti precedenti in una precisa griglia di attuazione, più uno studio centrato su Tsukeru/Kuzushi/Tsukuri/Kake;

-      Gen Ryū no Kata, Kata integrale che spiega la fusione di corpo e armi;

-      Happōken 1/2/3, che stabiliscono la tattica ideale a mani nude (e non solo);

-      Iai no Kata 1-5, lo studio della consapevolezza globale.

 

Una immagine di studio per dare una percezione del lavoro. All’inizio dei Kata Happōken c’è un tipico movimento di apertura col le mani unite che si alzano, si aprono in un ampio cerchio e poi si fermano coi gomiti ai fianchi, poi si allarga la posizione in Shiko Dachi unendo sinistra aperte e destra chiusa in un sigillo che è molto conosciuto nel Kung Fu cinese.

Normalmente l’osservatore crede che questi movimenti siamo semplicemente per la coordinazione respiratoria e per esprimere delle raffigurazioni simboliche prima dell’esercizio vero e proprio. In realtà riportano dei principi specifici d’azione, sulla “presa del centro” e azione di reazione alla reazione dell’avversario. Lo spostamento in Shiko Dachi è un contenuto medio tra quello rappresentato dalla fase precedente e l’inizio del “movimento esplicito” del Kata stesso. Due precise indicazioni sul lavoro delle braccia, delle gambe e quello coordinato tra i due.

Queste “azioni” esistono già in Kata di spada molto antichi, e costituiscono dei punti o “chiavi” di lettura delle tecniche poi presentate. Ignorarli o ridurli a semplici aspetti decorativi è un comportamento che dimostra una superficialità piuttosto marcata.

 

Passiamo ora allo Iai, che costituisce un punto estremamente importante nella struttura di un Sōgō Budō, Bujutsu, o Jū Jutsu. Ricordo che in origine le scuole di Iai erano anche scuole di scherma a spada sguainata e trattavano anche tecniche di altre armi e il Jū Jutsu. L’attuale, asettica e scissa interpretazione moderna del Seitei Iai e dintorni è solo un costrutto intellettuale che impoverisce miseramente la disciplina.

Lo Iai è l’attività che richiede in misura maggiore una consapevolezza a larghissimo raggio, perché l’azione è potenziale e non espressa. La capacità di lettura da parte dell’adepto deve essere contemporaneamente spontanea, rilassata, pronta.

Pur essendo una attività che richiede molta maturità tecnica e mentale (strategica e tattica, più conoscenza dei principi), è più che adeguato iniziarne assai presto lo studio, lavorando sugli schemi motori, ma stimolando l’universalità delle situazioni e della lettura applicativa dei Kata base. È adeguato che l’allievo novizio ne sia presto istradato nella maniera corretta.

L’adepto deve essere presto consapevole di ciò che fa e deve rendersi conto delle potenzialità delle tecniche. La spada e il suo uso nello Iai possono aiutare bene questa consapevolezza, già nella fase iniziale in cui si deve costruire la semplice tecnica motoria, prima che la stessa tecnica faccia sentire le “altre” connessioni. In seguito lo stesso Iai potrà guidare nel modo migliore la scoperta delle connessioni stesse e, attraverso i principi della scuola, trasportarle sia in altre armi, sia nelle tecniche a mani nude, colpi e lotta.

 

Lo Iai va letto attraverso il patrimonio culturale lasciato dalle scuole storiche della disciplina, sia di quelle di cui era una delle materie, sia di quelle di cui era la parte prevalente. Lo Iai non può scindersi dal Kenjutsu, dalla scherma a spada sguainata, e viceversa, costituendo in coppia l’Heihō, la summa teorica (e pratica) della scuola stessa. E va ricordato che queste scuole riportavano i propri principi anche nel lavoro a mani nude, nelle forme di corpo a corpo. Come sempre, tutto è interconnesso.

Lo Iai dello Yōseikan non nasce dal nulla, ma proviene dalla tecnica del Tenshin Shōden Katori Shintō Ryū e dalle altre scuole che Nakayama Hakudō sensei insegnò a Minoru Mochizuki sensei (vale a dire Musō Shinden Ryū, Shindō Munen Ryū e Shimomura-ha Musō Shinden Eishin-Ryū).

Studiare i testi e le didattiche di queste scuole per capire ed interpretare lo Iai Yōseikan è utile e doveroso. Nel mio caso mi è di molto aiuto il corpus del Katayama Ryū e dell’Hōki Ryū è un modello ed ispirazione molto importante, efficace, esauriente.

 

Lo Iai doveva essere un campo di studi per penetrare in quell’elemento che viene denominato Yōmi. La comprensione e la consapevolezza prima del fatto. (ma questo è un altro argomento di cui vorrei parlare più approfonditamente in un’altra occasione).

 

Prendiamo il primo Kata, conosciuto come Ipponme, la sua discendenza dal Yuki Ai Gyaku Nuki no Tachi del Tenshin Shōden Katori Shintō Ryū appare chiara (soprattutto avendo presente il Kumitachi della versione di Minoru Mochizuki sensei nello Yōseikan Shintō Ryū). Invece di una schivata-assorbimento con colpo in controtempo come lettura principale, Hiroo Mochizuki sensei propone un anticipo montante con passo sinistro e un Kiritsuke – colpo finale – avanzando. Lo schema motorio con anca concorde viene posticipato al secondo Kata, Nihonme, e qui, invece, viene proposta un’azione in contro anca. Questa prima lettura comporta diversi punti tutt’altro che facili e segue l’idea didattica molto radicata sia nello Iai che nel Kenjutsu tradizionale, che vuole il primo kata come una matrice di quanto seguirà, per cui sia una realizzazione non semplice per impegnare da subito lo studente. Numerose sono le trappole tecniche contenute nel Kata, in cui invariabilmente cadono i più. Ma qui ci può anche stare. Più grave è l’isolamento didattico dello Iai nello Yōseikan, perché la disciplina viene vista come un isolato, quasi un esercizio luccicante da inserire nella pratica, nel curriculum e nelle dimostrazioni per “fare la ruota” come tacchini stacciuti.

Lo Iai viene ufficialmente iniziato durante lo studio del programma da II a III Dan. La migliore didattica, invece, è far iniziare realmente già nell’apprendistato Kyu questa tecnica, in parallelo agli esercizi di Kenjutsu, in modo da accostarsi ai principi profondi della disciplina e ottenere dei grandi benefici di impostazione e consapevolezza. Ovviamente vanno insegnati degli esercizi propedeutici ai Kata del canone, in modo di migliorare la consapevolezza e apprendere più oggettivamente la tecnica di base.

La semplicità già impone pulizia e precisione, dà gli elementi per comprendere i canoni della scherma da applicare allo Iai e alla situazione “della spada che non c’è”. Poi ci sono i delicatissimi passaggi dal brandire e far tecnica con una mano al passare alla presa canonica a due mani senza perdere Zanshin, Chushin e il fattore tempo/distanza.

Tutti coloro che praticano Iai sanno quanto sono difficili le tecniche ad una sola mano e, al tempo stessa, quanti vantaggi tattici posseggono. Lo studio costruisce una tecnica solida.

 

A mani nude, nei colpi, la maggior parte delle tecniche è ad un solo braccio, in quanto i colpi si alternano. Strano notare come i colpi doppi, così efficaci, si siano persi nella scherma limitata dal concetto della competizione sportiva. Lo Iai aiuta a dare più essenzialità e efficacia a questi colpi singoli e aiuta a “chiudere” in modo appropriato il passaggio tra fase “a colpo singolo alternato” e fase di lotta “azione coordinata delle due braccia”. Tutto sempre con l’idea dell’Ippatsu o “colpo unico definitivo” nell’azione e con la percezione e la cognizione di quanto sta per accadere prima (e anche durante) per l’anticipazione.

 

Questi sono elementi di “studio della disciplina come Arte Marziale”. Freddo, tagliente, magnifico nella sua semplicità come la lama della stessa spada.

 

Torniamo, per chiudere, all’azione iniziale dei Kata Happoken. La mano di guardia piglia il centro, conquista l’iniziativa, attua la minaccia (Seme). È la ricerca della vittoria ineluttabile.

 

Altrimenti si perde solo tempo…

 

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