Il senso dell’Insegnamento, la Natura, una scuola

di Adriano Amari

 

L’antica memoria dell’uomo parla di una remota età primigenia, la cosiddetta “Età dell’Oro”, dove si viveva in perfetto contatto con la natura, vicini alla divinità. In quell’era si racconta che non esistesse la morte, né la malattia, la comunità viveva senza odio, era sconosciuto il delitto e l’incomprensione veniva istantaneamente chiarita.

Nella leggenda italica dei padri ancestrali, era l’era di Saturno o, per esempio, nella terra dell’isola, la nostra. era quella delle ninfe e della dea Demetra (che allora non si chiamava Demetra, ma il nome arcaico ancora non è stato riscoperto) prima del ratto di Proserpina da parte di Plutone.

Questa era l’epoca che poi verrà ricordata come paradiso terrestre, età dell’oro, pace dell’uomo perfetto.

Ma forse la perfezione era uno stato di neutro, e come un “qualcosa di sempre”, necessariamente si doveva scindere, creare degli opposti, e da lì la allargarsi la differenza. I potenziali cercano la riunione, ma di fatto a volte si armonizzano, altre cozzano fra di loro creando conflitto.

Ed ecco, qualcosa venne a spezzare questa idilliaca situazione, e il mondo precipitò in questa condizione di conflitto e miseria, dove ancora si trova. Leggende altrettanto antiche narrano dei vari motivi che causarono questa rottura dell’armonia innata e incorrotta. Tutti parlano di un’azione umana dettata dall’orgoglio e dall’egoismo, celata sotto il falso motivo della ricerca della conoscenza.

Perché occorre distinguere quando la conoscenza è “conoscenza” e quando non è altro che la malvagia tendenza a “rompere” le cose.

 

Diversi testi attribuiscono all’invenzione del linguaggio la causa di questa disarmonia catastrofica. Sostituendo le parole ad uno stato di comunicazione diretta ed istintiva, l’uomo causava non solo la sua esclusione dal resto della natura, non solo creava un abisso comunicativo tra i suoi stessi simili, dato che ogni linguaggio aveva, ed ha, forti variazioni dettate dalla singola personalità, ma anche dissacrava e diminuiva il potere delle cose, attribuendo ad esse  un nome che, raffigurandole in un soggetto espresso, assicurava magicamente il potere sopra di esse.

Possiamo definire il linguaggio la “prima tecnologia egoistica”?

Probabilmente si…

 

La tecnologia, da quella prima generazione, è aumentata e cresciuta a dismisura. Oggi siamo dipendenti dalla tecnologia, condizionati e regolati da questa cosa, con il risultato che assicurarsi il suo possesso appare come un vero innalzamento della propria capacità individuale.

Ma pensiamo alla tecnologia per quello che è veramente per noi, una scorciatoia che ci permette di fare un’azione in un modo veloce e apparentemente perfetto, ma in realtà carente. Non diciamo forse “fatto a macchina” per indicare una cosa in fondo dozzinale, poco accurata, senz’anima e senza quelle doti che costituiscono il risultato dell’opera precisa di un bravo artigiano o di un artista?

La nostra “fuga in avanti” tecnologica, di noi occidentali, ha cancellato moltissime conoscenze, sotto i possenti colpi dell’industrializzazione, delle catene di montaggio e del benessere (presunto?). Conoscenze che la nostra cultura aveva accumulato pazientemente nei suoi millenni di storia. E adesso che ci siamo accorti, almeno alcuni di noi, di quanto è stato perso e di quanto stiamo ancora per perdere, ci muoviamo con amarezza e passione per cercare di salvare, recuperare questo patrimonio e riconquistare i tempi rotondi e remoti di vita, associati alle conoscenze perdute…

 

Il nostro caso, la nostra sfera d’azione e di potere

Così è nelle Arti Marziali: travolte dal progresso tecnologico, dall’affermazione delle armi che uccidevano sempre più lontano, dall’imborghesimento della società. La mente borghese è solidamente protesa verso le logiche commerciali del profitto e del guadagno, logiche che ostacolano ed aborriscono i sentimenti eroici, il comportamento improduttivo, l’esistenza stessa dell’eroe e del poeta. Le Arti Marziali sono state quasi uccise dallo sport agonistico, che corrompe l’aspirazione umana al confronto cavalleresco, trasformandolo in un gioco mascherato dove il fine, dopo tutto, è ancora una forma di profitto, di resa egoistica, di perdita dell’immagine di sé stessi.

Perso, perso per noi questo patrimonio in occidente, ci siamo rivolti all’oriente.

L’ Oriente misterioso ed esotico, uscito, e non del tutto, solo da poco dal medioevo, ancora non contagiato completamente dal morbo del progresso tecnologico. Oriente ancora saturo di quella filosofia che permette di giudicare le cose per quello che sono, e il progresso tecnologico per quello che è, un giocattolo lucente, ma vuoto. Oriente che ci dà materiale per trovare un’ancora, per interpretare i segni rimasti del nostro antico patrimonio e ricomporlo con pazienza.

Nelle Arti Marziali con una storia e un cuore, una via da seguire, noi possiamo trovare ancora molte delle cose che l’uomo primigenio, l’uomo dorato, ha lasciato di sé stesso in eredità. Questo rapporto diretto e vero, entrando negli esercizi e nelle forme, che ci riporta di nuovo in diretta comunicazione, senza l’affanno deviante della parola, con il mondo, la natura, noi stessi, gli altri, nella ruota in moto perenne delle energie in movimento.

Sono le Arti Marziali create da uomini che, nel vortice sanguinoso e caotico del combattimento trovarono la verità della vita e della quiete e, arrivati fino al cuore della violenza, trovarono in quel luogo oscuro che l’estremo di un’energia desta e genera il suo opposto luminoso, crescente, potente.

Ora, una scuola di Arti Marziali, classica o d’ ispirazione classica, vive questa nascosta realtà e cela in sé stessa le intuizioni del proprio fondatore. Chi si avvicina ad un’Arte Marziale spesso non ha idee chiare o, avendole, rincorre all’inizio fini secondari e svianti, come possono essere la vittoria in una gara, il grado e la cintura nera, la forma fisica, l’invincibilità, l’esotismo. Poi, per chi scava sotto la superficie, si trovano sensazioni, che colpiscono l’ignaro principiante che non se le aspetta: celato sotto la maschera c’è il volto vero, profondo e terribile. Caso o intuizione guidano gli adepti verso le discipline che più loro si confanno, più vicine al loro carattere e pensiero.

 

A me questo caso e quest’intuizione hanno portato dapprima lungo le strade della scuola Yōseikan, e sotto il già affascinante aspetto esterno c’è, e c’è, quanto già cercavo. Il ricordo del linguaggio remoto della prima alba, la possibilità di risentirsi uniti all’ambiente che ci circonda. Ho trovato poi altre strade che insistevano su questa dello Yōseikan e che continuavano sullo stesso tragitto rafforzandosi a vicenda.

Molte Arti Marziali, come il Tai Chi, il Ba Gua, l’I Chuan, stili di Jū Jutsu e altre forme di combattimento, cercano il coinvolgimento globale del corpo nell’azione, unificando i tre aspetti che noi occidentali tendiamo a separare: fisico, mente, spirito. Lo Yōseikan si avvale del movimento detto onda-choc, all’inizio prevalentemente fisico, poi sempre più globale sui tre aspetti del corpo/essere unificato. Questo movimento scioglie e rende consapevoli le nostre catene muscolari, nel loro insieme di sostanza, impulsi ed intenzione. Risuona una vibrazione, infine, che è armonica con quelle della Natura, e mette in comunicazione sfera personale e sfera universale.

Il rapporto con la natura è un punto importante, che si sviluppa in vari modi, oltre che col movimento ondulatorio, attraverso il raggiungimento della maestria, maestria nella pratica di un’Arte Marziale. Tale cammino non è un punto comune, è piuttosto patrimonio delle discipline di contenuto tradizionale come lo Yōseikan Budō. Purtroppo spesso questo aspetto tradizionale viene tradito in favore del luccicare della tecnologia, sviando ed impoverendo, proprio immiserendo tutta l’attività.

Invece la pratica del “corpo unificato” non è un sentimento New Age o un’esaltazione passeggera. È quel tipo di rapporto di cui parlava Morihei Ueshiba sensei nei suoi discorsi. La sensazione della comunione delle cose in un unico, un continuo vuoto-pieno, materia-energia, dove tutto alchemicamente si trasforma l’uno nell’altro in un ciclo senza sosta.

 

È vero che l’esperienza delle Arti Marziali è un qualcosa di personale. Ognuno si trova coinvolto in un ballo, all’inizio caotico, dove si cerca pian piano di dipanare i movimenti fino a descrivere un disegno ordinato ed armonico. Per qualcuno, entrato col ritmo della danza fino al cuore del disegno, l’esperienza è di tale portata che non è più possibile continuare normalmente la vita precedente, occorre godere della nuova, viverla e, per dividerla con altri, cercare di insegnarla.

Per fare un esempio attraverso immagini iconiche della coscienza contemporanea, è come scoprire di essere “maghi” (e “maghi”, cioè sapienti coscienti di essere ignoranti, lo si diviene davvero!) e non “babbani”.

 

Spesso, in film o fotografie, si vede raffigurata l’immagine dell’anziano maestro, o del forte atleta, in una fase di meditazione, o in una di pratica, in ambedue i casi svolta davanti a uno scenario naturale. A volte l’aspetto di tale immagine è fortemente retorico, ma veritiero. Se un Dōjō è un posto irrinunciabile, l’espressione del “luogo”, della radicazione dello spirito e della consacrazione della pratica, al luogo chiuso è bene avere un’alternativa, uno o più luoghi naturali, tranquilli per posizione, ricchi di energie, dove rifugiarsi ogni tanto.

La pratica delle Arti Marziali cambia l’adepto. Almeno, questo succede se quest’ultimo ha la pazienza di perdurare l’attività oltre le difficoltà iniziali, non accontentandosi delle glorie esteriori dei successi sportivi o dei gradi vissuti come gratificazione personale. Qualcosa di diverso comincia a formarsi nel profondo del proprio abisso, fisico e non fisico. Spesso, all’inizio è un malessere, dove la sensazione è l’inadeguatezza, superata temporaneamente da apparenti nuove conquiste d’abilità. La stessa sensazione, poi, è ricorrente a cicli serrati o radi.

Ci si ferma a guardare anche cose d’apparente infima importanza, o estranee al modo di vivere corrente. Il ritmo della vita è diverso, vano il tentativo degli altri: cercare di riportare chi è cambiato in termini per loro normali, modaioli, consumistici.

Così la pratica scopre la sfera esterna, l’uomo sente e si rivolge a guardare l’energia nelle sue forme e manifestazioni. L’esercizio stesso non è più un’azione per vincere, non è più un movimento, ma una ricerca continua e costante delle correnti e delle sfere, delle strade dove camminano, si oppongono ed interagiscono Yin e Yang. Chi lavora con me, nella pratica percepisce che non ci sono più entità fisiche tridimensionali, corpi solidi compatti, ma un insieme di nastri di forze, con movimenti e scorrimenti. Si cerca di seguire, arrotondare e far adattare il movimento ai propri intenti, con impalpabile dolcezza, oppure di tagliare con incisioni imperiose, laddove si vede già il germe dello sfilacciamento.

Queste sono cose che, prima o poi, si vogliono dividere. L’allievo ha compiuto un cammino, prima istruttore di modelli, ora maestro. È un’elezione o una predisposizione? Il Maestro Minoru Mochizuki diceva che il ruolo dell’istruttore era l’evoluzione di studio del Budōka. Guardare le persone, spingere a diventare istruttori, se ne hanno l’indole, per diffondere la pratica educativa del Budō/Bujutsu. Alcuni hanno qualcosa in più, entrano maggiormente nella pratica, diventano “viventi”, persone in cui la disciplina è in tutte le loro azioni. Possono diventare dei maestri, guide e riferimento per tutti.

 

Qual’è il rapporto tra maestro ed allievo?

Spesso, oggi, il confine tra l’uno e l’altro è molto sottile. Ci sono ragazzi che intraprendono l’insegnamento dopo pochi anni, o addirittura dopo un corso di qualche fine settimana. In genere il loro fine è merceologico, o di semplice, pura, vanità.

Si fanno chiamare “maestri”. Ma non è il conoscere le teorie pedagogiche che fa l’insegnante oppure il saper fare, più o meno, la tecnica. Piuttosto lo è l’apprendistato presso un vero maestro, che lo forgia attraverso l’imitazione imposta, comunica la sua vita, lo martella per formare e temprare.

Il maestro è custode della disciplina. Nella sua opera di testimone e trasmettitore, da una parte cerca di venire incontro all’allievo, dall’altra severamente l’impegna e sorveglia che le regole della scuola ed il suo modello tecnico rimangano inviolati.

Non è facile insegnare, in generale, ed è difficile in modo particolare insegnare una cosa come le Arti Marziali. Il maestro deve decidere se l’allievo è affidabile, quanto può insegnarli, deve capire quanto l’allievo può apprendere e quale sia la miglior maniera per farglielo imparare. La gradualità dell’insegnamento, quando spingere e quando rallentare, i momenti migliori per chiedere di più e quelli per accontentarsi.

Non sa, il maestro, se i suoi semi germoglieranno. A volte sarà avaro d’acqua, a volte generoso di terra. Nessuno è uguale, e lui stesso cambia, nel tempo. È difficile, però, oggi, che l’allievo possa capire qual è il cammino e l’atteggiamento che gli è richiesto.

All’interno di una scuola, quali devono essere i rapporti tra gli allievi perché, come gruppo, possano imparare meglio ed assorbire con maggiore facilità gli insegnamenti? In realtà, oggi, chi inizia, è molto diverso rispetto una volta. Nei tempi storici gli allievi di una scuola formavano un corpo, un clan, una famiglia trasversale con legami speciali. Allora, la vita di uno studente di Arti Marziali era vicina a quella di un monaco o di un soldato, quando non lo erano. Si era un clan, in ogni caso.

Oggi, nell’era delle palestre, con i corsi d’insegnamento spesso inseriti all’interno di strutture commerciali, chi fa le Arti Marziali ha spesso un’idea delle stesse pari a quella che avrebbe se andasse a fare tennis, fitness o a comprare un chilo di patate al supermercato. Identifica direttamente la sua attività con un consumo. Al pari, i compagni del corso sono identificati come possibili amici, con cui svolgere attività di svago, venendo a mancare alcun tipo di concezione come unità di battaglia. Tocca al maestro avere pazienza, distribuendo il suo cibo, guardando con attenzione se un seme germoglia.

Ma è sbagliato pensare solo alla venuta di un nuovo predestinato.

La scuola vuole dare, a tutti, salute, capacità migliorate, senso del rispetto, l’amore per lo studio rigoroso.

La pratica è semplice.

 

 

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