LA SPADA SOTTO IL SOLE

Iai e Kenjutsu in Sicilia: nuove radici per Vecchi Alberi

di Adriano Amari

          Sicilia… Una volta isola al centro del Mediterraneo, vale a dire al centro del mondo antico. Un luogo che oggi è una ambita meta per turisti, ma per chi ci vive paese un po’ di periferia, soprattutto per quanto riguarda il mondo della cultura. E i questo mondo della cultura comprendiamo anche per le Arti Marziali, portate qui da maestri alla ricerca di sole e mare, o da caparbi viaggiatori che vanno lontano per imparare e poi, a casa, riaprono le loro borse offrendo il contenuto a chi è rimasto. L’isolana, in genere, è una società che un po’ si accontenta, vive di cose note. Nelle Arti Marziali cerca sempre le discipline più diffuse, o più reclamizzate, Jūdō, Karate, Kick Boxing, Aikidō, Jū Jutsu europeo, e non cerca altro.

 

Mi considero un viaggiatore, un “gentiluomo di ventura”. Per me il viaggio è come la vita, un pellegrinaggio, una ricerca errante dove i paesi lontani sono così diversi, così uguali a quello da dove si proviene. E pellegrino come gli antichi cavalieri, cerco i saggi dei luoghi lontani, che insegnino a chi vuole imparare. Dal viaggio, tra la meraviglia e il cammino, sogno e scommessa, sono riuscito a portare nell’isola le discipline marziali più complete, quelle più vicine alla tradizione, quelle con il “cuore” Per dirla alla giapponese, il “kokoro”, il meraviglioso.

Questa scommessa è stata pronunziata diversi anni fa, e la prima vittoria è stato portare lo Yōseikan Budō, ma ancora continua. Ecco le classiche e antiche scuole della tradizione marziale giapponese, Tenshin Shōden Katori Shinto Ryū, Katayama Ryū e Hōki Ryū.

         Da anni, il piccolo gruppo che mi accompagna ed io, ci alleniamo con queste discipline con l’aiuto di fior di maestri come Luisa Raini, Claudio Regoli, Eric Louw, Alain Floquet, Katsuhiko Kumai, Yukihiro Sugino, Costantino Brandozzi, Xavier Fleury, Alessandro Pantaleoni. È stata gettata una pietra, rompendo finalmente le acque immote. Non una sfida al dio delle acque, ma una preghiera al liquido: “Non stagnare più, scorri e sii mutamento!”.

         Il mio invito, come già facevo e faccio con lo Yōseikan Budō del Maestro Mochizuki, è quello di innalzare l’immagine comune delle Arti Marziali dall’idea di semplice difesa personale e di sport. O, almeno, presentare questa diversa versione, tesa alla promozione personale, all’illuminazione, alla comprensione e all’espressione di sé stessi, attraverso il corpo e la disciplina, come realtà estetica e fusione con la natura. Ma, per capire meglio, dobbiamo raccontare, spero con lieve, morbido, ma sensibile tocco, queste discipline dove mito e storia sono così fermamente uniti.

 

TENSHIN SHŌDEN KATORI SHINTŌ RYŪ: la voce del dio

         Il sole cominciava a riscaldare con forza l’aria, la giornata era già avviata verso il suo mezzodì. L’uomo nella radura si fermò, e staccando la mano sinistra dall’estremità della sua spada di legno, abbassò le braccia. Sebbene si vedesse che era in età matura, pochi segni di fatica trasparivano dal suo atteggiamento, nonostante avesse appena finito diverse ripetizioni di tagli e parate con la spada di legno, eseguite con una vitalità ed armonia che sarebbero state eccezionali in un giovane nel pieno della sua forma fisica.

     Lo sguardo rifletteva ancora una piena concentrazione, fluida e adattabile. L’uomo era in uno stato mentale perfetto, svuotato dai pensieri parassiti dal duro allenamento, pienamente ricettivo e fecondo. Quel prato leggermente ondulato, con dolci gobbe e avvallamenti, era ampio, delimitato in fondo da una quinta arborea, un boschetto, e dall’altra da un corso d’acqua, fresco e abbastanza ampio. Nel mezzo di questo verde spazio, isolato, un prugno contorto ma fronzuto sembrava indicare il centro ideale.

         Un guerriero, certamente. In quel quindicesimo secolo giapponese, un continuo susseguirsi di battaglie sanguinose, era raro incontrare un combattente di tale età perfettamente integro e vitale. Nell’uomo traspariva una grande forza, terribile, ma allo stesso tempo quieta e sensibile.

         Si diresse verso l’albero solitario, per una tregua momentanea dal calore solare. Nella sua singolarità il prugno aveva un ramo che correva parallelo dal suolo, un po’ isolato, ad una altezza ideale per sedervici sopra. L’uomo si accomodò su quella sedia naturale, e ripercorse con la mente tutta la sua azione durante l’esercizio. Si sentiva bene, concentrato, asciutto, efficace. Nonostante i suoi sessant’anni la sua azione era rigorosa e perfetta e, finalmente lo sentiva, perfettamente in accordo con tutta la Natura. Non c’era più dubbio, avidità, egoismo, arroganza. Solo un sottile velo lo separava dalla perfezione. Aria, luce e ombra erano attorno a lui, ma non erano che diverse apparenze di un'unica cosa.

         E nell’ombra ci fu una luce, una luce forte che non abbagliava, una presenza luminosa che non rifiutava l’ombra ma vi si distingueva. L’uomo vide un ragazzo che era la luce, ma allo stesso tempo era corpo. E lui, con una voce musicale che andava diritta al cuore, lo chiamò: “Maestro di tutti coloro che, sotto il cielo, percorreranno la terra brandendo la Spada”.

         Colpito dalla evidenza divina dell’apparizione, l’uomo balzò giù dal suo improvvisato sedile per prostrarsi a terra. Ma il ragazzo disse ancora: “Guardami Ienao!”. Quando questi alzò la testa il suo sguardo incrociò quello del dio: un lampo di luce, ancora, lo avvolse dagli occhi: tutto l’operato della sua vita si dispiegò davanti a lui, rivelandosi, risolvendosi. La logica e lo spirito della spada, del combattimento, gli parvero chiari ed evidenti.

         Quando questo lampo iniziò ad affievolirsi, l’uomo di nome Ienao vide di nuovo il ragazzo. E questi, nella sua gloria aprì le braccia, protendendole verso di lui. In quello spazio, quasi uscendo dal petto del dio, si materializzò lentamente un rotolo di scritture. E mentre si materializzava l’apparizione lentamente svaniva, finché non rimase solo il rotolo, posato sul prato davanti il guerriero.

         L’insegnamento supremo dell’arte della spada era stato trasmesso. Futsu-nushi-no-Mikoto, il dio dei guerrieri, aveva scelto un suo fedele, superiore nella tecnica, in armonia con la natura, dotato di spirito pietoso, per dare agli uomini una via di progresso, di illuminazione, di riscatto.

         La lezione del Katori Shintō Ryū, così come l’ha lasciata l’uomo che fu illuminato dal dio, Iizasa Choisai Ienao (1387 – 1488), parla agli uomini di costanza, dedizione, duro lavoro e attenzione. Gli esercizi dello stile prevedono ripetizioni di sequenze a due con armi di legno, spade, bastoni e lance, simulando lunghi duelli con continui scambi di colpi. Oltre l’aspetto marziale, ancora puro e con il sapore degli scontri sui campi di battaglia, queste serie modellano attenzione e respiro, tutta la macchina del corpo, compresi i sensi, fino a tradurre in mente e spirito i gesti.

         Se esiste una musica che il corpo suona nel suo movimento, quella del Katori Shintō Ryū avrà sicuramente l’impronta antica di certe melodie dell’Occidente medioevale, dove una voce sonora e pulita canta su una lastra di silenzio, riportando alla memoria strade selciate e muri di pietra, dietro i quali si aprono verdi giardini. È il sapore dell’antico, di ritmi più semplici, eppure più veri, eterni.

         Per secoli il Katori Shintō Ryū è stato una disciplina riservata, quasi segreta, aristocratica, misteriosa, conosciuta e rispettata per la sua efficacia. Un “tesoro culturale” della nazione giapponese.        

         Dopo la Seconda Guerra Mondiale, dei Maestri come Minoru Mochizuki e Yoshio Sugino diffusero questo stile in Europa, soprattutto in Francia e in Italia, dove ha un certo numero di seguaci. Affascinante, profondo, armonico nei movimenti, il Katori Shintō Ryū è rivolto verso chi desidera una pratica delle Arti Marziali severa e, allo stesso tempo, generatrice di progresso personale, senza deviazioni agonistiche, né concessioni alle mode.

 

KATAYAMA RYŪ, HŌKI RYU, la Luce nella Settima Notte

Settima notte. L’ultima. L’ombra della vasta aula del tempio sembrava ancora più scura, solo lontano brillava la piccola lampada, là dove era il luogo del Kami, del dio. In un angolo, al ballatoio d’ingresso, una statua di carne, nella sua posizione di meditazione, era insensibile a tutto. Da sette giorni e sette notti lo spadaccino rimaneva lì in perfetta posizione aspettando il messaggio divino e l’illuminazione, quello che avrebbe finalmente sublimato la sua ottima tecnica in una scuola. Si poteva attendere la risposta del dio solo sette rotazioni del sole. Questa era l’ultima notte, all’alba, se il segno non fosse arrivato, avrebbe fallito. Altri si sarebbero scoraggiati, dopo i lunghi giorni e le più lunghe notti passate ad aspettare. Sarebbe mai arrivata l’illuminazione? Erano le ultime ore del settimo, l’alba era ormai vicina e niente era successo. Tra poco il suo tentativo sarebbe fallito, e i monaci lo avrebbero scacciato, ammonendolo ad una maggiore perfezione. Ma per il guerriero niente era cambiato, dai primi minuti del primo giorno a questi finali, attendeva nella sua inamovibile posizione.

La luce della lontana lampada era un punto, indifferente del buio così come il buio era indifferente a lei. Il guerriero aveva il cuore aperto e ricettivo e, nell’immota presenza della luce, nel suo stato di perfetta meditazione, un pensiero sgorgò dal suo profondo e veleggiò davanti agli occhi della mente come un uccello in planata.

Tanti anni di studio delle Arti Marziali e di esperienza del combattimento, il senso stesso della sua vita erano in quell’unico, fugace volo. E l’uomo capì, improvvisamente, il percorso della sua esistenza e del suo valore per gli uomini.

Nello stesso attimo la luce pulsò e s’ingrandì, fino a diventare un piccolo sole. Il guerriero guardava nella sua completa inazione, compreso dalla rivelazione che era sorta da lui stesso e, allo stesso tempo, perfettamente libero. Nella luce fiorì un gigantesco ideogramma-mantra, KAN (), e il suo concetto nascosto fu immediatamente chiaro all’uomo, grazie alla rivelazione, mentre una voce parlò nella sua mente, svelandogli i segreti arcani del segno. Il dio accettava la meditazione del fedele, regalandogli la pienezza in terra. Katayama Hisayasu aveva quello che gli serviva per fondare la sua Arte Marziale, un’arte che superava il conflitto, non per uccidere, ma per riportare l’armonia.

Hisayasu sesei ebbe questa visione ultraterrena (1576/1650) durante il suo ritiro in meditazione presso il tempio di Atago, posto su un monte fuori Kyoto, l’antica capitale. Un tempio famoso come quelli del nord-est, Katori e Kashima, dove avevano ricevuto l’illuminazione altri illustri guerrieri. L’apparizione noumenica dell’ideogramma/mandala Kan fu la sua luce. Alcune fonti narrano che Hisayasu battezzò, all’inizio, il suo stile Ikkan Ryu (一貫流 - lo stile dell’unica continuità). Quasi l’affermazione che non esiste margine, né differenza, tra quiete e moto.

L’insegnamento spirituale che il fondatore volle riversare nella sua disciplina, fecondata dall’illuminazione divina, era l’ “Hokoyami no Ho” o l’ “abilità per fermare le armi”. Questo indicava che ogni allievo del suo stile, suo o dei suoi successori, avrebbe posseduto, quando avrebbe colto il cuore della sua disciplina, la capacità di fermare il conflitto e riportare l’armonia senza uccidere l’avversario.

In origine il Katayama Ryū, poi chiamato Hōki Ryū dal soprannome del fondatore dal gruppo Hoshino di Kumamoto, era un sistema completo con Kenjutsu, Iaijutsu, Bōjutsu e Jū Jutsu (Scherma con la spada, estrazione della spada, scherma con il bastone lungo, corpo a corpo. Ma, durante la sua storia, negli anni, subì delle frammentazioni e si persero parti del suo insegnamento. Attualmente l’Hōki Ryū è conosciuto per la sua forma di Iai e, anche se molto meno praticato rispetto ad altri stili come il Muso Shinden Ryu e l’Eishin Ryu, costituisce un’arte importante e apprezzabile per i suoi contenuti tecnici e la sua bellezza. Particolarità dello stile Hōki sono la particolare guardia Garyu e l’azione di punta detta Soete Tsuki, molto veloce. Diverse tecniche appaiono studiate per distanze corte e adattate durante il periodo dello shogunato Tokugawa per uno scenario diverso, senza armature, dove erano più importanti i colpi veloci e precisi, diretti a ferire e danneggiare, quindi a mettere fuori combattimento l’avversario, prima dell’eventuale colpo finale. La guardia Garyu, come abbiamo scritto tipica dell’Hōki Ryū, indica l’entità “dragone dormiente”. Appare in uno degli ultimi movimenti di alcuni Kata, finita la parte combattiva, appena prima di ringuainare. È una posizione dove si osserva la situazione per decidere se si “è risolta” la contesa. Se tornare allo stato di quiete o continuare l’azione.

Attualmente l’Hōki Ryu è praticato da diversi gruppi, che presentano delle piccole variazioni nelle esecuzioni delle tecniche. Il gruppo di Kobe pratica anche l’antica forma di Jū Jutsu,

 

L’evento

Evento, un movimento che rompe lo schema ripetitivo delle lezioni in palestra, a quei giorni, a quelle ore. Inviso a chi cerca dalla pratica solo rilassamento e oblio, quasi che fosse l’alternativa a un tranquillante o ad una bevuta, si deve un passo, piccolo o grande, sulla Via.

         Intanto, adesso, il Katayama Ryū, l’Hōki Ryū e il Katori Shintō Ryū hanno una casa anche sotto il monte Pellegrino (o nel paese dell’esagono)…                                                                          

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