Occorre avere coscienza delle proprie origini, del proprio territorio, dello specifico patrimonio culturale. Solo stabilendo una identità personale e di popolo è possibile poi comprendere ed accettare altre culture.
Questo
è il primo articolo di una serie dedicata alla “Terra dei Padri e delle Madri”,
storia e cultura che ci contraddistinguono e di cui dobbiamo andare fieri.
Palermo
e Non Palermo
Memorie
e Riflessioni
Palermo…
La
città di oggi è solo un’immagine che cela in sé altre immagini più remote. Il
centro storico di oggi è formato da edifici che, allo sguardo, mostrano una
antichità di duecento, trecento anni o poco più. Qua e là emergono edifici più antichi,
ma già del Medioevo non presenta che tracce, mentre delle pur fiorenti città
degli arabi, dei Bizantini, dei Romani, dei Punici, niente più appare.
Oltre
quelle di pietra altre memorie sono scomparse, sostituite da storie più
giovani, ricordi dimenticati dalla distrazione moderna, con le sue effimere
luci e superficiali attrazioni. Nuovi Dei cercano di sostituire i vecchi Dei -
come direbbe Neil Gaiman - ma loro, i vecchi, se la ridono e continuano ad
essere lì, apparentemente nascosti o nascostamente apparenti.
Una
delle tante “storie dimenticate” mi è tornata davanti in questi giorni ultimi
giorni d’Estate, e qui io voglio raccontarvela!
Io
“Raccontatore di Storie”!
Come
sapete la Sicilia è una terra molto antica e molto antica su questa terra
antica è la presenza dell’uomo. E su questa terra antica, già alle prime luci
del suo mattino, l’uomo vide e riconobbe le Dee e gli Dei di questa terra e li
venerò perché acconsentissero che loro, gli uomini, crescessero e si
moltiplicassero. Nelle terre ad Est dell’Isola, e nelle rocche che si
allungavano sul mare, battute dal Sole, gli isolani venerarono i Maschi,
Signori del Sole e del Fuoco. Nelle terre ad Ovest, nella rocca del centro, nei
pozzi della terra, gli isolani venerarono le Femmine, Signore della
Generazione, della Vita e dell’Acqua.
Palermo
era uno dei centri della Dea.
Non
la Madre contemporaneamente Figlia, come sulla Rocca di Enna, non la
Divoratrice della Prole, dalle fauci sanguinanti di carni fatte a brani, come
ai lati del monte che vedrà poi Akrai, non la Sposa di Tutti, Signora delle
Colombe, come sull’estremo del roccioso, alto pianoro di Erice, non Colei che
rivela l’aspro futuro dal pozzo delle grotte ctonie, come nella desolata cavità
di Lylibeo.
Palermo
era la casa della Vergine, della Fanciulla dei Luoghi, della Ragazza dei Fiori
e degli Animali. Palermo, che non si chiamava Palermo: il vero ed ancestrale nome
è seppellito nel mistero. Palermo da sempre fu tempio di questo aspetto della
Dea multiforme. Quando arrivarono i cristiani e gli antichi Dei furono da
questi condannati all’oblio, la condanna stessa non si attuò e la gente rimase
fedele alle immagini ancestrali, per cui i sacerdoti del “dio nuovo” dovettero
celare sotto le immagini del loro credo quegli dei, quei principi che la gente
non voleva abbandonare.
L’espressione
di questa “Dea vergine” venne allora riversata su quattro figure di sante del
primo cristianesimo: Oliva, Ninfa, Cristina ed Agata. E’ da notare che queste
figure, assai simili tra loro nel racconto agiografico della vita e del
martirio, sono storicamente estremamente incerte, non esiste nessuna benché
piccola prova della loro esistenza e i fatti narrati nel martirologio non
coincidono con usi e leggi dell’epoca in cui sarebbero vissute e morte.
Secondo
un’analisi antropologica, nella loro passione (come per molti altri santi e
martiri, e no, del pantheon cristiano) ci sarebbero riflessi di antichi riti
misterici, in cui si rappresentava, simbolicamente, la rinascita della vita
dalla terra uccisa dall’inverno dopo essere stata violata, spezzata, stravolta
dal lavoro dell’uomo agricolo. Queste antiche dee, o una dea, una “dea multipla”
come veniva immaginata, diventarono le vergini e martiri cristiane, poi patrone
di Palermo.
Adesso,
però, dobbiamo passare adesso ad un altro campo, più fisico ed urbanistico. La
Palermo più antica stava su un promontorio roccioso staccato da due fiumi che
si riunivano in un’ampia baia, la Cala, che in origine risaliva con le sue
acque fin quasi l’attuale Piazza Pretoria. Nelle antiche religioni fortemente
animistiche di quei tempi lontani, oltre i templi di pietra e di legno, erano
luoghi e santuari spontanei i boschi, le fonti, gli aggrottati. Fuori dalla più
antica cerchia muraria, quella punica e romana che fortificava questo promontorio,
oltre le valli dei due fiumi che lo definivano, sulle loro sponde, c’erano
diversi di questi santuari “spontanei”. I luoghi che la gente riconosceva
istintivamente come “particolari” e individuava come sede di un Genius Loci, di
un “Daimon”. Tra questi uno si trovava nei pressi dell’attuale Capo, sui bordi
dell’attuale piazza S. Onofrio, dove c’era una importante fonte sacra che poi
gli arabi ribattezzarono “Fonte dei Romani” (romani nel senso di cristiani) e
degli aggrottati o un boschetto in cui si venerava una divinità maschile della
natura.
Un altro
punto, tra i tanti, il poggio a monte dell’ingrossarsi del Keimonia, dove
c’erano ipogei e altre sorgenti d’acque e dove poi si eresse la chiesa di S.
Giovanni in Keimonia.
Ma il
punto che interessa, adesso, che poi ci ricondurrà indietro alla storia delle
sante vergini, si trova più giù del corso del Keimonia, un altro poggio
probabilmente in origine un po’ dirupato sulla valletta del corso d’acqua, il
luogo dove ora nella sua grandezza e maestosità si trova l’imponente complesso
della chiesa ed ex convento di Casa Professa dei Gesuiti.
Questa
località doveva essere, ormai le prove ci sono, un centro sacrale. La presenza
di un culto, come sempre succede, si tramanda negli anni, con gli stessi luoghi
occupati via via dai “credi” dominanti del periodo storico in atto. Il
complesso dell’area sacrale comprendeva dei templi in superficie, su cui, poi,
si sono sovrapposte altre chiese e anche abitazioni, e sacelli ipogei, anche
loro poi trasformatisi in chiese rupestri per culti di santi già dal periodo
protocristiano e bizantino. Sempre nella zona si segnala la presenza di una
abbondante sorgente, anche essa ricadente nella sfera del sacro. La zona fu
minutamente inurbata nel periodo arabo, quando avvenne l’espansione urbana di
Palermo fuori dalle mura punico-romane, al di là del Keimonia, da questo lato,
e del Papireto, dall’altro. Passata la dominazione araba la zona rimase un
quartiere urbano, detto il “Casalotto”, con svariate chiese che sostituivano
gli antichi sacrari accoppiati ai luoghi di culto sotterranei.
Da
notare che, appena dall’altra parte dei Keimonia, dentro le antiche mura,
esisteva un altro “luogo sacro” legato a dee della terra e dell’aria, situato
dove oggi ci sono il “Cortile delle Sette Fate” e il “Vicolo delle Sette Fate”
(di fronte l’ex monastero di S. Chiara), con alcune interessanti leggende.
Altro punto arcaico e sacro lì vicino, sempre nella città dentro le mura, era
la cavità sotterranea dove poi sopra sorse la chiesa di S. Giuseppe dei Teatini,
con la sua sorgente sacra di acqua ritenuta miracolosa e poi associata alla
figura della Madonna.
Torniamo
al nostro poggio dove sorgerà il complesso gesuitico del Gesù e di Casa
Professa.
Stiamo
parlando del grosso isolato compreso, andando in senso orario, che viene
recintato
dal
percorso formato da Piazza Casa Professa, Vicolo Casa Professa, Piazza SS.
Quaranta Martiri al Casalotto, Vicolo SS. Quaranta Martiri al Casalotto (che
una volta sboccava in via del Bosco, ora cieco), Via del Bosco, Piazza Ballarò,
Vicolo S. Michele Arcangelo, Via Casa Professa. Abbiamo chiuso il circuito.
Questo
grosso isolato, il quartiere “Casalotto”, prima della costruzione gesuitica, era
un vario agglomerato di case, chiese, giardini e viridiari. Ricordiamo l’antica
abbazia e chiesa della Madonna della Grotta, con un suo vasto ipogeo, la chiesa
dei SS. Cosma e Damiano, con ipogeo, la chiesa di S. Calogero in Thermis, con
suo ipogeo, la chiesa di S. Michele Arcangelo, con suo ipogeo, la chiesa dei SS.
Crispino e Crispiano, con ipogei in cui sgorgano sorgenti, tramutati in bagni
in periodo musulmano, la chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, la chiesa di S.
Maria delle Rimediate, la chiesa di S. Dionisio. Inoltre ricordiamo il palazzo
quattrocentesco Cusenza-Marchese, con la sua famosa “Camera dello Scirocco”
ricavata da un antico ipogeo e la chiesa dei SS. Quaranta Martiri al Casalotto,
da cui si scende in una antica chiesa sotterranea e si ha accesso ad un ampio
impianto catacombale molto antico, che si stendeva sotto buona parte del
quartiere. Come si può vedere è notevole la presenza di strutture sotterranee
conosciute, perché non è da escludere che ne potevano e possono esistere altre
non conosciute, ma di cui rimane memoria popolare. Notare anche la presenza di
“personaggi” santi molto legati come aspetto e memoria a divinità locali
siciliane di caratteristiche simili:
- Cosma
e Damiano hanno preso posto di culti antichissimi dedicati a Dei fratelli tipo
i Dioscuri o i sicilianissimi Palici. Ancora famosa e celebrata tutt’oggi a
Sferracavallo la particolare processione in onore dei due santi con episodi di
sfrenato misticismo;
- S.
Calogero è la trasfigurazione di una antica divinità sicana, poi identificata
con il greco Cronos, un Signore delle grotte e della natura;
- La
Madonna della Grotta è, a sua volta, trasposizione di una divinità ctonia
femminile legate alle acque della rinascita;
- S.
Michele arcangelo sostituisce un genio/demone positivo e solare, di
connotazione guerriera, protettore delle persone in pericolo;
Ci
troviamo di fronte ad un vero “polo sacro” orientato verso divinità sotterranee
legate alle acque. In questo stesso quartiere veniva ricordata la antica dea
vergine signora della sua “città santa”, Palermo. Si tramandava che lì ci fosse
una casa dove aveva abitato Rosalia prima di ascendere alla grotta anacoretica
del Monte Pellegrino e che, in un luogo misterioso, vi fosse seppellita la
santa vergine e martire Oliva.
I
gesuiti arrivano a Palermo nel 1547 e, dopo un periodo di organizzazione,
ricevono la chiesa di S. Maria della Grotta con annessa abbazia e viridiario,
per farne anche casa dei religiosi e sede della loro prestigiosa scuola. Il
complesso prese lentamente forma e fu un cantiere produttivo e fecondo per
secoli. Il risultato è un insieme di opere d’arte eccezionali omologo a quello
del complesso di Monreale, che, come al solito, noi stessi non conosciamo e non
valorizziamo come sarebbe giusto e degno.
Torniamo
al tema. In questa seconda metà del XVI secolo erano ancora patrone della città
le quattro sante vergini sopra citate. Dopo il concilio di Trento e la messa in
opera della Controriforma, una nuova sete di “divino” attraversava le genti,
con una rinnovata richiesta di sante reliquie. La città viveva anni
altalenanti, con frequenti carestie ed epidemie. Intorno al 1600 si diffuse
velocemente e misteriosamente la voce che il corpo intatto e miracoloso di
Santa Oliva si trovava sepolto, a qualche metro di profondità, composto su un
basolato di pietra in fondo ad un pozzo, davanti o nei pressi della chiesa di
S. Michele Arcangelo. Scoppiò una febbre, una smania di ricerca, e si
impiegarono maestranze e volontari nella ricerca dell’ultima dimora della
santa.
E ci
furono contrasti coi gesuiti, dato che l’erigenda chiesa del Gesù, e il
Convento che vi andava prendendo forma intorno, andavano lentamente ad inglobare
gli antichi posti dove la santa scomparsa poteva essere stata sepolta. Si scavò
in più posti, con accanimento, perfino davanti all’attuale scalinata della
chiesa gesuita. Nei contrasti tra l’Ordine e il clero secolare, ci scappò anche
una scomunica. Però tutti gli scavi, i saggi, finivano nella stessa maniera: ad
un certo punto la fossa si riempiva di una massa imponente d’acqua, che non si
riusciva ad eliminare. Se l’acqua non allagava subito lo scavo, tutt’al più si
arrivava, quattro metri sotto al piano di calpestio di allora, a un solido,
compatto, apparentemente illimitato basolato di pietra, che poi era il
pavimento su cui leggende e visioni collocavano l’incorrotta salma della
vergine martire. Poi, comunque, arrivava l’acqua. Fonti e fontanili erano e
sono abbondanti nella zona, ma il fenomeno comunque sconcertava. Dopo mesi e
mesi di ricerche, anche impegnando operai e manovali volontari, essendoci stata
comunque una forte spesa di denaro, si rinunciò all’impresa.
E’
strano che la “leggenda aurea” di Oliva abbia alcuni elementi singolari e
diversi dallo stampo ripetitivo e ripetuto delle altre “vergini e martiri”:
- un
misterioso viaggio in Africa, dove ancora sarebbe venerata a Tunisi, ancora
presente come ricordo ed associata ad una moschea della città;
- la
tradizione che la riscoperta del suo corpo causerebbe un serio cataclisma per
la Conca D’Oro, a cui seguirebbe però un periodo di grande prosperità;
- che
la riscoperta della salma della vergine santa causerebbe, non è chiaro come, la
caduta definitiva dell’islam.
In
questa leggenda ci sono ancora molti aspetti antropologici misteriosi, di cui
qualche ricerca, si spera, potrà dare prima o poi una spiegazione.
Ricordo
ai lettori che in quegli anni Santa Rosalia non era ancora patrona di Palermo,
lo erano le dette quattro sante vergini e martiri, tuttora raffigurate ai
Quattro Canti. Rosalia era una figura minore appena ricordata come santa
palermitana nei cicli di orazioni della cattedrale. Dopo questo episodio su
Santa Oliva tornò in auge la sua memoria e furono proprio i gesuiti a
sponsorizzare il ricordo di Santa Rosalia e a decantarne le virtù, facendo
quello che ora si chiamerebbe una massiccia campagna pubblicitaria. Venne
creato uno specie di clima d’attesa, venne ricordato che la giovane era sparita
sul monte Pellegrino dove si era ritirata in romitaggio. Si immaginava più o
meno dove fosse il suo ritiro, ma non si era fatto finora nessuna ricerca.
Ci
furono probabilmente dei tentativi, ma fu solo nel 1624, in seguito a delle
visioni, mentre infuriava la peste, che i resti del corpo di Rosalia furono trovati
sul monte, vicino ad una chiesetta semiabbandonata, in una grotta già sede di
culto della Dea dalla preistoria e, anche lì, era presente una fonte sacra. La
peste che infuriava mietendo vittime a decine improvvisamente scomparve e si
attribuì a questo ritrovamento la fine della calamità. Sappiamo che Rosalia fu
nominata patrona di Palermo soppiantando le quattro precedenti. Non tutti
sanno, invece, che furono i Gesuiti a gonfiare le vele dell’entusiasmo e
dell’elezione di Rosalia a patrona, a ideare e sviluppare il festino di Luglio
e, addirittura, a disegnare i primi “carri” che portavano in processione la
Santa. Ovviamente di Oliva non si parlò più, anzi lentamente scivolò
nell’oblio.
Così
nacquero le “fortune” della “santuzza” e Rosalia fu la nuova personificazione
della Dea ancestrale.
Sempre
riguardo a Santa Rosalia, notare che la festa vera e propria è quella del 4
Settembre, accompagnata dal rito dell’ “Acchianata”. Questo rito, accompagnato
da comportamenti “penitenziali” che dovrebbero garantire a soddisfazione di un
desiderio del penitente da parte del santo, è un altro un atto arcaico, a
Palermo e in Sicilia già presente da sempre.
Sappiamo
che c’erano questi riti simili sin dall’antichità e che a Palermo stesso
c’erano queste tradizioni di pellegrinaggio nella zona di Brancaccio, a Baida,
e poi al Monte Pellegrino. Nel caso del Monte Pellegrino, allora era assai
selvaggio ed era molto difficile accedervi. Fu per questa edificata l’antica
“Scala” che tutt’ora si utilizza. La fortuna di queste “usanze” ritrovate sta
probabilmente nel fatto che comunque risiedono nella memoria ancestrale e,
anche se l’uso si sospende per lungo tempo, anche secoli e secoli, poi
riemergono potenti appena se ne risveglia la possibilità di riutilizzarle.
Il
nome vero di Palermo, e l’antica Dea patrona sono ancora un mistero…
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