Il Tempo Presente: un Dōjō per le Arti Marziali

 

Quando ho iniziato a fare Arti Marziali, si praticava in luoghi, ricavati da garage o da locali da deposito, che chiamavamo palestre. Erano poco più che stanzoni con qualche attrezzatura, per le Arti Marziali alcune materassine stesa per terra. I frequentatori erano gruppi di appassionati che cercavano realizzare le proprie passioni, in genere allora Judo, Karate, Lotta, Pesi, o il Culturismo non ancora americanizzato in Body Building. Lo spirito era quello dell’adattamento, i materiali spesso inventati o ricavati con soluzioni di artigianato casalingo, spartani ma funzionali. La passione legava i gruppi diversi e si sorvolava sulle docce spesso tiepiducce se non fredde, sugli spazi non adatti, sul sentir freddo d’inverno e caldo d’estate.

Ora tutto è diverso. Le palestre luccicano nelle loro finiture, nei cromatismi delle macchine e nelle forme degli attrezzi, l’ambiente è una specie di rutilante discoteca dove si va per socializzare ed “aggiornare” il proprio corpo ai canoni dell’apparire. È una attività che si “vende”, come merce, dove il prodotto deve essere sempre nuovo, brillante, splendente nella sua apparenza, portato avanti con logiche proprie degli aspetti più consumistici del mercato.

In questo scenario le Arti Marziali spesso non entrano più, non sono “prodotti” appetibili per i gestori-imprenditori di locali commerciali. In queste palestre, o “gym”, di oggi, non costituiscono una merce che “ha mercato”. Possono rimanere solo le attività più sportivizzate, più compromesse ai gusti contemporanei e per questo richieste dal pubblico.

Le Arti Marziali hanno bisogno di tempi e spazi estremamente differenti. Non possono essere limitate al limite commerciale di “un’ora” per turno, non possono essere limitate al “due o tre volte” alla settimana, chi le pratica non ha interesse per “l’accesso gratuito alla sala pesi”, né a offerte combinate con corsi di fitness, spinning o aerobica.

Noi che facciamo Arti Marziali siamo gente che detesta la musica ad alto volume, gli strilli degli altri istruttori e gli altri rumori di questa contemporanea cacofonia. Siamo gente diversa, con un’ottica diversa da quella del corso di ginnastica, del dimagrimento, del risultato subito a tutti i costi. Gente che è disposta ad allenarsi con metodi, orari, ritmi diversi da quelli che sono abitudinari, normali, standard.

L’attività di un Dōjō tradizionale dovrebbe essere senza limiti di orario. Le lezioni, impartite dal maestro del Dōjō, saranno sì ad orari prestabiliti, ma nel resto del tempo, eventualmente suddiviso per aree di influenza, dovrebbe essere un “open space” dove gli allievi, singoli o a gruppi, si allenano sotto la tutela di alcuni anziani, di servizio a turno.

Le lezioni, d’altra parte, guidate direttamente dal maestro o da suoi speciali incaricati, non dovrebbero avere dei limiti di collocazione, sfruttando orari come il primo mattino, i festivi, le pause pomeridiane e altri intervalli.

È chiaro che, nella vita di oggi, esistono delle limitazioni a cui non è possibile non tener conto: orari d’ufficio, di scuola, impegni di famiglia, oltre i tempi necessari al riposo, ma è anche vero che riuscire a rompere la meccanizzazione delle idee e delle abitudini non può che far bene.

Gli “spazi ideali” per le Arti Marziali difficilmente vanno d’accordo con la gestione delle palestre. I corsi di Arti Marziali possono essere di poche persone, possono richiedere tempi dilatati, possono esserci più dei canonici tre turni settimanali. Necessitano di ambienti particolari per potersi realizzare compiutamente.

Allora, è anche evidente che maestri ed allievi devono compiere un’altra opera di rottura, uscire dalla corrente delle palestre commerciali. Il Dōjō e ogni suo corso è un club riservato e particolare più che un posto di consumo. È necessario che i praticanti capiscano che la loro attività è più raffinata e specialistica e, soprattutto più elitaria, di una lezione di ginnastica o di pesi. Gli allievi dovrebbero prendersi carico delle spese e attribuire il giusto valore al tempo che il loro istruttore impiega per istruirli.

Qui ci troviamo, ancora, con delle diverse possibilità. L’istruttore potrebbe essere un “dilettante”, ovvero una persona che già possiede un lavoro regolare extra l’attività nelle Arti Marziali, a cui dedica il tempo che rimane fuori dall’orario di lavoro o, al contrario, essere un professionista, vale a dire una persona che dedica tutto il suo tempo alle Arti Marziali stesse.  Ci sono elementi positivi e negativi in entrambi casi.

Nel primo caso l’istruttore potrebbe avere, in definitiva, poco tempo a disposizione, e non riuscire, di conseguenza, a svolgere per sé stesso il necessario lavoro di perfezionamento e di progresso personale, studio ed allenamento. Rischierebbe, in poche parole, di rimanere legato al livello che possiede e non riuscire più ad andare in avanti. Il suo metodo, al di là delle apparenze, che potrebbero mostrare il contrario, si involverebbe sempre più.

Nel secondo, l’istruttore potrebbe compiere questa scelta proprio per la complessità della/e disciplina/e che gestisce, approfondendo gli studi e muovendosi spesso presso i maestri della/e sue disciplina/e per lavorare con loro. Però c’è il rischio che l’aspetto monetario diventi, volutamente o no, preponderante, e privilegiando questo aspetto, ne venga a scapito la qualità.

Se tutto va al meglio, è chiaro che il secondo caso sarà migliore del primo, e rappresenta veramente l’essenza di un Dōjō tradizionale. Non è possibile, altrimenti, fare in altra maniera. Una scuola, o più scuole, richiedono che una persona sia fortemente motivata e dedichi tutto il tempo possibile ad approfondire. L’istruttore dovrebbe fare questo passo quando è sicuro ed è ad un buon livello, ben introdotto nella tecnica delle sua/e disciplina/e.

La mia esperienza personale è vissuta su tutte e due le sponde e in tutti e due i tempi. Facevo Arti Marziali nelle palestre di appassionati, dove la nostra pratica era vista con la stessa passione, anche da chi faceva attività diverse, anche con piccole e bonarie (o meno) rivalità. Palestre semplici, spartane, oggi inaccettabili, ma dove l’enorme passione faceva miracoli e produceva persone eccezionali, atleti e maestri. Poi è venuto il tempo, sempre più incalzanti, delle palestre-business, e tutto è cambiato. Anni di pratica, studio e passione non contavano più nulla, era il numero degli allievi, quanto potevi portare alle casse, che importava. Di fronte alle nuove e scintillanti attività americane, l’attacco del cosiddetto “scientifico” e del “marchiato” convince il pubblico educato dalla pubblicità imperante e la tua attività culturale non contava nulla. Vieni considerato solo un relitto di un periodo patetico, ora c’era lo “sport da combattimento” che faceva “impatto”. Nello spazio conteso, rimangono gli orari i più scomodi. La superfice di pratica, i tatami, le materassine, sono considerati un ingombro, per cui l’idea che fossero uno “spazio sacro” diventa risibile e continuamente violato. La musica delle nuove, “moderne” discipline, a volume più che massimo rompe continuamente l’aria, rendendo impossibile la pratica.

Altri episodi dimostrano come, almeno qui al sud, dove non esistono strutture pubbliche o scolastiche affittabili “a chiunque” e dunque in concessione per uno spazio e un tempo, l’unica alternativa è mettersi in proprio. Altri maestri, con decenni di pratica e alti gradi, scuole avviate da tempo, sono stati defenestrati, perché il loro corso era solo di una decina di allievi. In un altro caso, una intera società attiva da decenni e con grossi risultati nel campo di Judo, Aikido e Karate, ha lasciato la sua decennale sede perché il proprietario intende trasformarla in un supermercato.

Costruire un Dōjō è certamente una impresa d’impegno, tempo, volontà e denaro.  Quasi sempre il maestro è solo, in questa scelta, l’appoggio degli allievi può essere una questione di mani, ma il più tocca a lui. Bisogna trovare un posto adatto e che non sia sacrificato, delle dimensioni giuste. Bisogna rendersi conto che sarà solo per le Arti Marziali, o quasi, la scuola deve sostenere sé stessa.

Secondo il mio parere, il Dōjō deve essere costruito in modo tradizionale, secondo il sistema culturale della propria disciplina, sia essa giapponese, cinese o asiatica in generale. I punti di base sono gli stessi. Inoltre, la disposizione di un Dōjō tradizionale è quella che garantisce la miglior praticità e sfruttamento dell’ambiente. Inoltre, chi pratica una disciplina tradizionale sa che esistono energie e direzioni che devono accompagnare la pratica, per garantire un migliore risultato, tecnico e biologico, degli allenamenti.

Questo vuol dire che ci deve essere una direzione principale ed una secondaria, un muro d’onore, uno spazio per ogni cosa.

                              Il Dōjō è uno spazio sacro.

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